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"Non è il buono contro il cattivo e fare in modo che vinca il buono. Il senso del calcio è che vinca il migliore in campo, indipendentemente dalla storia, dal prestigio e dal budget."

Johan Cruijff

domenica 21 dicembre 2014

Fattore Pausa Natalizia

Roma-Milan è stata una classica partita all'italiana: tutto fumo e niente arrosto. Conclamata per una settimana come solo i giornalisti odierni sanno fare, si è rivelata come una partita semivuota di contenuti. Apro una piccola parentesi: a proposito deigiornalisti, credo che se Brera potesse leggere alcuni articoli in sua memoria e potesse vedere il livello del giornalismo delle maggiori testate sportive, si starebbe tranquillamente rivoltando nella tomba. Chiusa parentesi.
Inzaghi continua a proporre un 4-5-1 senza punta, il cui unico schema è quello del due-tocchi-e-poi-sparala-avanti. Ci saranno state una decina di volte in cui Menez, di ruolo incursore, si è ritrovato da solo davanti alla difesa della Roma perfettamente schierata. Al decimo minuto le squadre erano già lunghe, colpevoli di frenesia immotivata e, soprattutto, vana. Dissi che sarebbe stato interessante notare l'uso degli attaccanti da parte di Inzaghi; io fino ad adesso ho solo visto una sfilza di difensori centrali e una mischia malassortita di centrocampisti. Il contropiede, su cui si basa la strategia, a tratti sfiora la pateticità. Considerando i proclami al gioco offesivo, direi che siamo ben lontani da ogni risultato soddisfacente. Oltretutto, al netto di una prestazione tutto fuorchè sufficiente, mi pare davvero imbarazzante esultare per uno 0-0. Il Milan odierno merita senz'altro l'attuale posizione in classifica (che con le partite da giocare oggi potrebbe ulteriormente peggiorare), niente più. O cambia qualcosa nella mentalità e nei giocatori o i rossoneri sono destinati ad un tracollo senza attenuanti.
In casa Roma si respira una trepida aria di insofferenza. La stanchezza ha cominciato a fare il proprio lavoro e le prestazioni fumose di Nainggolan e De Rossi ne sono l'emblema. La Roma attuale si erge esclusivamente sulle giocate di Gervinho, che a tratti (al pari di quelle di Menez) paiono indisponenti. La pausa natalizia è il palliativo ideale, ma non la cura definitiva. Fossi stato in Garcia avrei buttato nella mischia Ljajic al posto di Florenzi, preferendo correre piuttosto che rincorrere.
Non recriminiamo sugli errori arbitrali, per favore: la partita è già stata abbastanza noiosa di per sè.

sabato 13 dicembre 2014

Fattore Europa

Il lato positivo è che ben cinque squadre porteranno il nome dell'Italia in Europa League (ben pochi saranno gli italiani, ma questo è un altro discorso). Il lato negativo è che solo una sarà in Champions, oltretutto come seconda classificata e con una buona percentuale di scontrarsi con un top club agli ottavi. L'Europa League, ex Coppa Uefa, è ormai diventata il nostro livello, lo specchio verso cui riflettiamo la nostra terribile e ben poco temibile mediocrità. Il problema è che da ormai troppi anni abbiamo preferito snobbare questa competizione, preferendo guadagnare qualche punto in più in campionato. Forse è anche questa mentalità ad averci fatto arrivare a questo tenore. L'Italia, fino agli anni '90 fiore all'occhiello del migliore calcio, è ormai diventata il quarto Paese più importante. Non ci resta che aggrapparci ai vari Pakistani, Indonesiani o addirittura Ciprioti. Probabilmente quando capiremo che la soluzione è la "qualità" dei soldi -e mi riferisco ai nuovi stadi, a calciatori dei nostri vivai, all'evitare gli ex campioni ormai bolliti di squadre inglesi... la solita nenia insomma- e non tanto alla quantità, l' Inter indonesiana ne è un esempio.
Tornando al calcio giocato, mi pare che l'Europa League sia un obiettivo facilmente perseguibile da Roma e Napoli, un pò meno dall'Inter. I capitolini perché, nonostante la poca lucidità delle ultime partite e la consapevolezza che passeranno degli anni per ripetere una stagione come quella scorsa, sono pur sempre una buonissima squadra; i partenopei perché hanno alla guida Benitez, che di tornei del genere se ne intende abbastanza (Champions con il Liverpool e proprio l' Europa League con il Chelsea); piazzo i milanesi leggermente indietro per il semplice fatto che Mancini, in passato, ha vinto con ben altri tipi di calciatori.
Non penso che possa essere una motivazione determinante il fatto che la vincitrice possa partecipare direttamente alla Champions il prossimo anno, quanto un eventuale dispotismo nazionale della Juventus. Molte società prenderebbero questo trofeo come un pretesto per non considerare fallimentare la propria stagione.
Ora ci aspetta un interessante turno di campionato: le due sorprese genovesi contro le due conferme.
Siamo al giro di boa, la vera stagione inizia adesso.

sabato 22 novembre 2014

Fattore Riforma

Due giorni or sono il presidente Tavecchio ha approvato la tanto attesa riforma del calcio. Essa si sviluppa essenzialmente in cinque punti: 
  • Rose a 25 giocatori, di cui quattro cresciuti in Italia e quattro nel vivaio del club con l'illimitato tesseramento degli Under 21
  • Nuove regole per i cosiddetti "giovani di serie": Il giovane extracomunitario al primo tesseramento deve essere residente in Italia ed essere entrato nel paese con i genitori non per ragioni sportive e comunque aver frequentato la scuola per un minimo di quattro quattro anni.
  • Curriculum obbligatorio per uno dei due extracomunitari tesserabili ogni anno. La sostituzione del calciatore extracomunitario sarà possibile solo nel caso di esistenza del contratto da professionista da almeno tre anni (dal 2012). 
  • Fair play finanziario nel sistema delle licenze nazionali.
  • Ineleggibilità e decadenza dei dirigenti: la condanna minima rimane un anno di giudicato, ma solo per reati per i quali esiste una pena superiore ai tre anni.
Inoltre, Tavecchio ha anche presentato una bozza riguardante gli atti di violenza ai danni degli arbitri (unico tema che ha trovato la totale condivisione dei presenti). Verrà votata nel prossimo consiglio federale.
Dettati punti, mi accingo ad una più minuziosa analisi: il primo punto implica una drastica riduzione delle rose per diciannove squadre di Serie A. Ciò comporta due cose per i giocatori in esubero: o la vendita dei giocatori in esubero, il che porterebbe ad una significativa diminuzione del loro valore di mercato, o lo svincolamento. Due strade difficilmente percorribili. La terza strada la indica nientepopodimeno che Claudio Lotito (c'è bisogno di aggiungere altro?), ovvero le "multiproprietà" di società calcistiche in serie minori.
Il secondo e terzo punto sono piuttosto contradditori. Di fatto si apre al terzo extracomunitario, in quanto il parametro che definisce un curriculum "all'altezza" è l'aver presieduto in panchina almeno due volte nell'ultimo anno. Anche il criterio del contratto da professionista pare piuttosto blando. La nota positiva è che si dovrebbe "rallentare" la compravendita lampo di giocatori, tipiche di club come Udinese e Catania.
Il quarto punto è, a mio parere, un bel segnale. Le nuove norme si allineeranno con le quelle imposte dalla Uefa. Ciò andrà a sfavorire i club più piccoli, ma potrebbe essere anche uno stimolo ad investire più sui capitali umani (allenatori con nuove idee, giovani italiani, maggiore intraprendenza) che monetari.
Il quinto punto è un'assurdità, ma ormai a in un Paese come il nostro, in cui la giustizia ha migliaia di volti, cose del genere sono un'abitudine.

In definitiva la ritengo una riforma con diversi limiti. Non è radicale e rischia di essere il classico specchietto per i tifosi da bar. Servono provvedimenti più decisi, più rivoluzionari; a partite non tanto dalla Serie A, quanto dalla Lega Pro e Serie B. Questo pare nient'altro che un aiuto ai progetti di Lotito e una pezza piccola ad una falla grande, un'altra mezza riforma che, probabilmente, non muoverà le acque, in questo periodo piuttosto stagnanti. Ripeto lo stesso che concetto che espressi il giorno dell'elezione di Tavecchio: si può e si deve cambiare.

mercoledì 19 novembre 2014

Fattore Barricata

In un vecchio post riguardante l'approdo di Antonio Conte sulla panchina dell' Italia, avevo espresso alcuni dubbi sulla sua effettiva capacità di allenare una Nazionale. Dubbi che, nelle ultime due partite, sono stati  parzialmente confermati.
Conte è un allenatore dalle indubbie conoscenze, ha preso una squadra allo sbando, vittima delle gestioni fallimentari di Ferrara e Delneri (più Zaccheroni nel ruolo di Caronte), e l'ha trascinata fino al triplice trionfo in campo nazionale. Il tecnico leccese, paragonato per certi aspetti a Mourinho, è in grado di tirar fuori determinazioni e voglia (che lui ama racchiudere sotto la parola "fame") in un modo eccelso. Ha la tendenza di spremere i suoi fino allo sfinimento, ma i risultati, finora, gli hanno dato sempre ragione.
I miei dubbi nascevano dal fatto che Conte sa far giocare bene una squadra facendola lavorare molto; non riuscivo a capire, quindi, come potesse ottenere gli stessi risultati selezionando giocatori plasmati nel quotidiano da mani che non fossero le sue. Oltretutto, a remar contro (stage o non stage) vi è anche il tempo, sempre più ristretto. Ed ecco il paradosso: Conte, che a marzo si era infuriato con Prandelli per la convocazione di un "ammaccato" Chiellini, ora chiede disperato aiuto alle società. E' passato dall'altra parte della barricata, portandosi dietro anche un pò di ipocrisia.
Detto ciò, mi pare che su alcune questioni abbia ragione: le squadre italiane, oltre ad essere piene zeppe di stranieri (la maggiorparte dalle dubbie qualità), non si allenano fisicamente a sufficienza. La prova ne è il fatto che le formazioni europee, chele nostrane affrontano in Champions o in Europa League, corrano quasi il doppio più a lungo. Ma questo ha radici ancora più profonde, che partono dalla mentalità tutta italiana di anteporre la tattica (che si riducono in tatticismi) alla tecnica e alla resistenza fisica.
Conte non è probabilmente l'uomo giusto, ma è sicuramente nel momento sbagliato. I colori azzurri si basano su ultra trentenni (Buffon, Pirlo e De Rossi) e su una penuria di calciatori che sappiano saltare l'uomo. Non a caso ci esaltiamo al dribbling di un Cerci o di un Giovinco qualsiasi. Conte non ha del buon materiale grezzo ed è in un momento di piena crisi; toccherà a lui il fardello di trovare un'idea per vendere a buon mercato il poco che ha, con la consapevolezza che non tutto si compensa con schemi ben impostati. E' passato, di propria volontà, dall'altra parte della barricata, spero sinceramente che qualcuno dei giocatori lo segui. Due partite e ne manca già uno all'appello, quello "tornato al proprio Paese", Tavecchio dixit.

sabato 15 novembre 2014

Fattore Esonero

Nei personali  pronostici  di una calda mattina di agosto avevo piazzato l' Inter al terzo posto, dietro a Juventus e Roma. Lo so, a tutti capita di farsi scappare una sciocchezza, anche se mancano ancora tante partite da qui fino alla fine del campionato.
Vedo sempre con sincera disapprovazione gli esoneri degli allenatori. Mandare via una persona è un errore di chi l'ha chiamata. Non so chi, in questo caso, abbia preso questa decisione, se Fassone o Ausilio, ma tant'è, alea iacta est. Mazzarri, da parte sua, non ha fatto niente per evitare questo esonero, anzi, a tratti sembra averlo quasi auspicato: tralasciando le popolari scuse, dagli infortuni alle condizioni atmosferiche, non è riuscito a dare un gioco alla squadra, delle cui individualità si può discutere fino ad un certo punto; la rosa è più che valida in un campionato come quello attuale. Altri errori sono sicuramente stati la cattiva preparazione estiva e la mancata cura dei giocatori con più talento. Sulla prima ormai da diversi anni in Italia ci si concentra maggiormente sulla tattica, sui moduli, dimenticandosi che per giocare a pallone, prima di tutto, bisogna correre; arrivare prima sul pallone fa la differenza nella quasi totalità delle azioni di gioco. Sulla seconda bisognerebbe addentrarsi nelle situazioni quotidiane di lavoro, ma i mancati exploit di Hernanes, fantasma del bel giocatore che fu biancoceleste, di Kovacic, certamente ancora acerbo sotto diversi punti di vista, di Palacio, anch'egli una copia scarsa di quello genoano, pesano e non poco.
Si riparte da Mancini, che porterà sicuramente entusiasmo, bisogna vedere per quanto. Questo cambio di panchina costerà come trenta e passa milioni, all'incirca il costo di un giocatore di alto livello. Inutile che vi ripeta cosa avrebbero fatto all'estero, eccetera eccetera...
Mancini, sottovalutato con gli scarpini, sopravvalutato con le sciarpette, riparte senza Ibrahimovic e con la cosapevolezza che Thohir, o chi ne fa le veci, di calcio ne capisce poco.


http://www.inter.it/it/news/67005

giovedì 6 novembre 2014

Fattore Gironi Champions

Ho atteso qualche settimana per tornare a riscrivere, troppi risultati scontati e bizzarri.
Partiamo dalla Roma. Quella di ieri è stata una partita senza significato, inutile parlare di "recuperata dignità" o dello scarto di sette goal della scorsa come un "incidente di percorso". Chi punta in alto non ha bisogno nè di recuperare la dignità con le seconde linee (proprie e degli avversari) e non ha incidenti di percorso, al massimo percorsi accidentati. La Roma non ha le stesse qualità del Bayern, ma neanche la stessa determinazione (o per dirla alla Conte "fame"). I giallorossi vengono da una stagione di grandi numeri, che, in assenza di numeri superiori della Juventus, avrebbero significato scudetto assicurato. Una stagione che probabilmente ricapiterà tra molti anni; la mancata vittoria finale pesa sulle gambe, e non poco. Sarà compito di Garcia rinnovare le ambizioni della Roma e, al momento, paiono piuttosto infiacchite.
Il regalo del Man City facilita il viaggio verso gli ottavi, ora però non bisogna fare passi falsi.
Passando alla Juventus, si è vista una bella gara, che dimostra, ancora una volta, come una tendenza maggiormente offensivista possa portare grandi soddisfazioni. Ottima la scelta di Allegri di cambiare modulo, fare di necessità virtù negli ultimi tempi ha portato buoni risultati ai bianconeri: dal 4-2-4 al 3-5-2 con il Napoli o il 4-3-3 con il Real Madrid (due partite eccezionali, seppur incassando un magro bottino). Cambiare fa bene e molti allenatori dovrebbero capirlo, vedi Mazzarri.
Gli ottavi sono un traguardo raggiungibile per entrambi e non credo che l'attuale campionato toglierà molte energie. Vedendo i risultati della Serie A, più che parlare di "partite combattute", mi viene da dire "combattimenti tra poveri" (soprattutto a livello tecnico e fisico).
Apro una piccola parentesi sull'assegnazione del Pallone d'Oro. Al di là degli interessi economici che vi sono dietro, io, come avrei fatto nel 2012 a Iniesta o Xavi, assegnerei il premio ad un tedesco, in quanto rappresentante della migliore espressione del calcio. Se devo fare un nome, sto con Kahn: Neuer.

mercoledì 22 ottobre 2014

Fattore Dirupo

Dal bordello al dirupo. La batosta di ieri sera sarà ben dura da digerire, sono sette schiaffi che colpiscono più dentro che fuori. La Roma si è dimostrata quel che è, molto in casa (inteso come Italia), ben poco fuori. E ieri non sono bastati neanche sessantamila spettatori, a evitare questo capitombolo. Il Bayern Monaco non è il Manchester City, ma neanche la Juventus. La squadra lo ha capito adesso, e a caro prezzo.
Garcia ha sbagliato formazione: continuo ad essere dell'idea che Cole sia un giocatore con le migliori primavere alle spalle e che Totti non possa più sopportare dei livelli così alti (li ha mai sopportati?). Iturbe è un giovane con una tecnica superiore alla media, ma non è un fuoriclasse. Non può (ancora) decidere le partite con una giocata veloce o un tocco fine. L'unica voce fuori dal coro è stato Gervinho, ex riserva dell' Arsenal. Da metà campo in giù, un disastro. Più che una sudditanza, ho visto paura, fin troppo reverenziale. La difesa su più di un goal è rimasta imbambolata, quasi chiedesse il permesso, quasi sempre negato, di rubare palla, di poter ripartire o contrastare.
Di sicuro non hanno aiutato le predizioni di vittoria dello scudetto (siamo ad ottobre, keep calm) e le numerose e ormai ripetitive interviste sulla partita contro la Juventus. Per una settimana vittimismo, ieri vittima per davvero; i giallorossi non hanno sbagliato partita ieri, hanno sbagliato l'approccio in tutti i giorni precedenti. Un pò di umiltà sarebbe servita ad evitare qualche rete.
Ora tocca alla Juve. Che la lezione alla Roma serva anche a loro: testa bassa e correre. In Italia, leoni, fuori... speriamo lo stesso.

martedì 14 ottobre 2014

Fattore Zero

La nuova Italia targata Antonio Conte non eccelle, ma non sbaglia; molte squadre, vedi Spagna, Olanda e Germania, l'hanno fatto. Questo è il nostro bicchiere mezzo pieno.
Abbiamo affrontato Azerbaigian e Malta, riusciendo a strappare due vittorie di misura. Questo è il nostro bicchiere mezzo vuoto.
Fatte le dovute premesse, non mi pare giusto muovere eccessive critiche contro Conte. Rimango sempre dell'idea che non sia l'uomo più adatto per dirigere (differente da "allenare") una Nazionale, ma bisogna anche dargli delle attenuanti. Riparte da una gestione che definirla disastrosa sarebbe esorbitante, ma neanche troppo. Prandelli non ha lasciato un gioco come fecero Klinsmann o Aragones in Germania e Spagna. Non ci ha lasciato neppure molte certezze, cambiando ogni partita moduli e giocatori, inventandosi mezzeali come trequartisti (su tutti Montolivo, il più lento nel ruolo che si gioca in velocità e con pochi tocchi). Il cambio di panchina, che piaccia o meno, ci ha fatto ripartire da zero. E, volendo vedere altre note positive, si è buttati nella mischia volti nuovi, da Immobile a Zaza, a Pellè (finalmente), a Pasqual. E si sono lasciati a casa i vari Criscito, Maggio e Balotelli, che un tempo, tra cross finiti in curva e certi atteggiamenti, avrebbero visto la Nazionale con il binocolo.
E' vero, non sono arrivate goleade, quasi doverose contro piccole formazioni, ma bisogna prendere atto che nel reparto offensivo non abbiamo alcun campione. Tornando indietro nel tempo, noi abbiamo avuto attaccanti come Vieri e Inzaghi, Totti e Del Piero, Baggio e Mancini; adesso nessuno che possa minimamente fare la loro stessa differenza. Maggiore ne è la prova del fatto che veniamo messi in difficoltà dall'assenza di Pirlo, l'unico che possa dare un pò di fantasia. Apro una parentesi: vedrei meglio Verratti in un centrocampo a quattro, con qualcuno al galoppo da fargli da ombra, tipo Gattuso con Pirlo nel '06, chiusa parentesi.
Sicuramente questo discorso valeva anche con Prandelli, però Conte sta cercando di dare quei pochi schemi che anche dei giocatori meno talentuosi sono in grado di eseguire in maniera corretta.
Non mi piace doverlo dire, ma per ora è meglio che prendiamo i tre punti, poi alla bellezza del gioco ci penseremo quando avremo giocatori in grado di darla.

lunedì 6 ottobre 2014

Fattore Bordello

Scusate il titolo "colorito", ma mi sembra più che appropriato per descrivere la partita di ieri pomeriggio.
Tre rigori, tre espulsioni, cartellini gialli come coriandoli e cinque reti totali. Non sono uno che ama la ressa, o meglio la rissa, della moviola casalinga, quindi preferisco non dilungarmi troppo sugli errori arbitrali: c'era il rigore più espulsione (da ultimo uomo, lo so, regola assurda) di Holebas sull'intervento ai danni di Marchisio, c'era il rigore a favore della Roma (vogliamo giocare come in Europa o no?), c'era, infine, il rigore su Pogba; giuste le esplusioni di Manolas, Morata e Garcia. Inesistente il rigore causato Maicon, regolare il goal di Bonucci (i masochisti del fuorigioco si scatenino pure).
Al di là del bordello, scusate di nuovo, arbitrale, c'è anche la necessità di analizzare una partita tra le prime due forze, ormai da due anni, del nostro campionato (cosa che non mi pare i quotidiani stiano facendo). Partita selvaggia; come scrissi in risposta ad un commento, avrebbero avuto un grande ruolo i nervi, ma mai mi sarei aspettato tanti fischi e polemiche. Poca lucidità, tanto agonismo, sopratutto da parte della Roma, che però suole giocare di fioretto, non di sciabola. La paura di perdere ha preso il sopravvento e, di naturale conseguenza, pure i falli. Poca tattica e tanti, troppi tatticismi, figli della nostra mentalità di guastatori.
Trovo davvero ridicolo parlare di favori arbitrali a tinte bianconere, dopo tre anni di successi (in campionato) incontrastati. Questo è un limite delle squadre a cui manca ancora qualcosa per vincere. La Roma, in tal senso, assomiglia, con giuste proporzioni di gioco, vagamente alla Juventus di Ranieri. Una grande squadra, che in questo caso potremmo estendere alla città, deve andare oltre i torti. Deve essere superiore. Proprio come la Juve, in Europa, l'anno scorso, avrebbe dovuto andare oltre la bufera turca.
Vi prego, non ritiamo fuori questa partita per altri tre anni come il goal di Muntari, cerchiamo di andare avanti e superare questi bordelli (scusate ancora) di percorso.

martedì 30 settembre 2014

Fattore Facebook

Fattore Calcio sbarca anche su Facebook, oltre alle presenze su Twitter (https://twitter.com/FattoreCalcio) e Google+ (https://plus.google.com/u/0/b/114174089241792901994/114174089241792901994/posts).
Questa decisione nasce dalla volontà di espandere il numero di lettori e invogliare ad una partecipazione più critica e dialettica di tutti gli amanti del calcio.

Link: https://www.facebook.com/fattorecalcio

facebook.com/fattorecalcio

domenica 28 settembre 2014

Fattore Ombre

Ahi Milano. O meglio, quell'ombra di Milano, facilmente bistrattata dal Cagliari e bloccata dal Cesena, non dal Bayern e Real Madrid.
In casa nerazzura si è partiti forti con i proclami, Mazzarri su tutti, salvo poi ritrattare dopo quattro goal subiti in casa dai modesti sardi, finalmente con parvenze zemaniane. Ibarbo ha aperto crepe proprio dalle parti di quel Dodò che fu mitizzato dopo appena due partite. Mazzarri si prende la colpa, ma quella più innocente e falsa: il bisogno di turnover. Dopo appena cinque giornate? O forse sono il gioco, la tecnica individuale o una cattiva preparazione estive le vere cause? Io piazzai l'Inter terza all'ultima giornata. Non è una giornata storta a comprometterne il cammino, ma parlare di scudetto è sembrata la classica zappata sul piede. Cianciare sempre di sfortuna non solleva la squadra da pressioni, sono i risultati a esaltare o condannare.
Il Milan è figlio di una campagna acquisti quasi ininfluente, di un allenatore immaturo e di un ambiente ormai nostalgico. Non stiamo parlando di un grande club, o meglio, non più. Le litanie sugli infortuni, sul carattere e sulla voglia sono tanto superficiali quanto patetiche. Inutile proferire "grande reazione" sul 2-0 in favore della neopromossa Empoli, o  "grande prestazione di forza" dopo averne subite quattro da un Parma orfano di bomber. Sono luoghi comuni, nient'altro.
Le due milanesi sono vittime di loro stesse, di clichè e di quella nebbia (tipica lombarda) di confusione che li avvolge. Sono ombre del Milan di Sacchi/Capello/Ancelotti e dell' Inter di Mancini/Mourinho.
Ora le aspettano rispettivamente Chievo e Fiorentina. Il primo è sempre andato a goal, tranne nella partita con la Juve (parata miracolosa di Buffon su Maxi Lopez), la seconda sempre andata a punti, tranne con la Roma (risultato largo per quanto visto in campo). Due ottime prove per testare le proprie capacità.

domenica 21 settembre 2014

Fattore 3a giornata Serie A 14/15

La strada è lunga. E il Milan se n'è accorto ieri sera, trincerato in difesa sotto la dittatura bianconera. Partita ad un unico senso, salvo la capocciata di Honda su dormita della difesa juventina e qualche spazzo di Menez. C'è bisogno di consapevolezza dei propri limiti, inutile illudersi. La panchina è corta, la coperta  tattica fin troppo lunga. Dopo il primo tempo i rossoneri erano già stanchi, causa la ricerca elementare e dispendiosa del contropiede. La saracinesca in difesa e il rilancio a molla in attacco sono caratteristiche del nostro calcio, ma ti fanno vincere una partita, un torneo, non un campionato. E' una tattica troppo faticosa ed è il motivo per cui i bianconeri fossero nettamente più lucidi pur avendo avuto la Champions martedì contro una squadra nordica, che a livello fisico ha poco da invidiare.
Il centrocampo rossonero ha carenze a centrocampo, che temo non verranno colmate dal giovane (forse ancora acerbo) Van Ginkel. Quando la fatica affiora, un paio di piedi buoni sono un ottimo tampone. Ho capito poco i cambi, non avrei messo sia Torres che Pazzini, due arieti, vista la scarsa dedizione di De Sciglio sulla trequarti avversaria e la rara precisione di Abate nei cross alti.
Dall'altra parte Allegri gongola. C'era troppo scetticismo alle sue spalle e lui, poco alla volta, si sta togliendo tutti i sassolini. Non sono tra quelli che sostengono che abbia cambiato poco. La difesa, nonostante l'assenza di Barzagli, uomo simbolo degli ultimi anni, è stata facilmente sopperita da Caceres, da tempo più che un semplice panchinaro e Ogbonna, che patisce meno la serietà di Allegri, rispetto alla veracità di Conte.
Tevez aveva perfettamente inquadrato la partita: è il Milan che deve dimostrare qualcosa. Forza venite avanti, noi siamo superiori a voi. Ha funzionato alla perfezione, direi.
Azzardo un paragone: Tevez assomiglia a Maradona molto più di Messi. Hanno simile leadership, sanno caricarsi la squadra, lo stadio. Lottano sempre e hanno pure la stessa tendenza a scendere fino a centrocampo pur di avere la palla tra i piedi.
Ora tocca alla Roma dimostrare di tenere il passo per il secondo anno, la Juve è lì che aspetta al varco, con il pugnale tra i denti.

venerdì 29 agosto 2014

Fattore Pronostico '14/'15

Estate molto calda questa. Non a livello metereologico, per disgrazia di albergatori e ristoratori, ma a livello calcistico per gli amanti della sfera. Conte dalla Juve alla Nazionale e Seedorf via dal Milan, Allegri alla Juve e Inzaghi dalla Primavera alla prima squadra rossonera, la disfatta azzurra in Brasile e Tavecchio sul trono del calcio italiano, Kroos al Real e Suarez al Barça. Sono tanti gli argomenti da prendere in considerazione. Ma oggi, ad un solo giorno dall' inizio campionato, è tempo di pronostici.
Ho la brutta tendenza ad azzeccare le mine vaganti e a sbagliare (anche se non di molto) la classifica della "zona sinistra". Cerco di migliorare, ma quest'anno è ancora più tosta:
  1. Juventus: è la favorita grazie al triplice trionfo consecutivo. Manca un attaccante, ma la rosa è più che valida. L'incognita, più che il tartassato Allegri, è la difesa. Fino al ritorno di Barzagli non mi sentirei troppo al sicuro.
  2. Roma: Benatia significava molto. Manolas arriva da un campionato inferiore, ma non troppo. La rosa è competitiva se al completo. Nutro tanti dubbi su Cole ed Emanuelson, che credo che non aggiungano niente, anzi. Non è riuscita a vincere l'anno scorso con una stagione strepitosa, che fosse quella l'anno da sfruttare?
  3. Inter: ho avuto la tentazione di schierarla dopo la Fiorentina. Tutto o quasi dipenderà da Vidic ed Hernanes. Kovacic servirà, ma non troppo. Icardi ha dimostrato che, se aiutato, può fare grandi cose. Buon acquisto il verace Medel.
  4. Fiorentina: campagna acquisti quasi inesistente. Siamo ancora alla ricerca del duo Gomez-Rossi. Se arriva puntuale,  il quarto posto è probabile.
  5. Napoli: la partenza di Behrami non mi ha convinto. La difesa fa acqua e Maggio si dimostra inadeguato da ormai molto tempo. La prima regola per noi italiani rimane la stessa: prima di tutto non prendere goal.
  6. Lazio: mi stuzzicava l'idea di piazzarla davanti al Napoli. L'unica incognita, a mio avviso, è Pioli, abituato ad ambienti meno complicati.
  7. Torino: mi piace pensare che Immobile e Cerci (?) non saranno grandi carenze. Mi ha stupito la campagna acquisti di stampo sudamericano e giovane. Fidatevi di Ventura, ultimo dei maestri italiani.
  8. Milan: la Juve prima di vincere ha toppato con due settimi posti (con cambio di allenatore); più o meno uguale discorso per la Roma (anche lì pessimi risultati e cambi di allenatore). Qui, oltretutto, zero campagna acquisti. So che probabilmente arriverà il colpo-da-salvatore-della-patria-berlusconiano, ma i problemi sono altri (e tanti). Arrivare ottavi sarebbe già una buona cosa.
  9. Verona: il tutto si regge su Toni-Marquez. Pesanti le cessioni Iturbe-Romulo-Jorginho, ma mi fido di Mardorlini e della sua tuta.
  10. Cagliari: mi diverte l'arrivo di Zeman a Cagliari. Un taciturno in un popolo di poche parole. Ha in squadra tanti giovani italiani e perciò gli do la mia fiducia.
Mina vagante: Lazio

Ai posteri l'onore e l'onere di contraddirmi.

martedì 12 agosto 2014

Fattore Presidenza

Si é presentato come il "presidente di tutti". In realtá, di chi? Di gente come il trio Lotito-Galliani-Preziosi? Il latinista, il supercompetitivo e il giocattolaio. Insieme rappresentano perfettamente il male del calcio italiano. Su di loro pesano cause milionarie, passaporti falsi e frode sportiva: un ottimo spot per il calcio azzurro.
Sia chiaro, Albertini non era manna dal cielo. Era il vice del dimissionario Abete, tra le maggiori figure della patetica prestazione brasiliana. Si dice che sia farina del suo sacco l'idea di "convocare" anche le mogli/miss/fidanzate/cortigiane dei calciatori. Se é cosí, i miei piú ironici complimenti. Oltretutto il suo nome circolava giá ai tempi di Calciopoli. Non era manna, ripeto. Ma nonostante tutto la sua carriera e la sua giovane etá erano buone carte, sicuramente migliori delle "gaffe" di Tavecchio.
Sicuramente in questa votazione hanno giocato anche le major dei diritti televisivi. Da una parte Mediaset (pro Tavecchio), dall'altra Sky (pro Albertini).
Come in ogni proverbiale "battaglia" italiana, non sono mancati i voltagabbana: da Abodi l'innovatore al Cesena neopromosso, passando per Thohir il magnate (che stavolta ha preferito un nostro piatto tipico, il magna magna).
Quando rivedo, leggo o sento nomi come Carraro, Matarrese e compagnia bella, non mi meraviglio se neanche una frase su Opti Pobá (non chiamatela battuta, non ho visto nessuno ridere) diventa un legittimo motivo per ritirare una candidatura. Il calcio italiano rimane dov'é, nella sua palude stagnante. Spero che almeno Tavecchio abbia la dignitá di non dire frasi tipo "il gap con l'Europa aumenta" e bagiannate simili.
Si poteva e si doveva cambiare.


giovedì 17 luglio 2014

Fattore Cambiamento

In Serie A tira aria di cambiamento. Nel 2013 cambiarono Napoli, Inter e Roma, adesso, anche Milan (seconda volta in realtà) e Juventus. Inzaghi sulla panchina rossonera, Allegri su quella bianconera.
Parto dal primo. Inzaghi ha una gloriosa storia alle spalle, sul campo più un killer che un calciatore. Nasce e cresce sulla linea del fuorigioco, trionfa con goal "di rapina". Arriva sulla scottante panchina, lasciata, non senza strascichi, da Seedorf, mai andato troppo a genio nè alla società, nè ai calciatori. Alcune testimonianze narrano di particolari diete e regole dell'olandese, che hanno sancito la sua partenza. Inzaghi, non sarebbe di meno a quanto pare, ma serviva un testa da impalare e l'hanno trovata in Seedorf. Ma tant'è, questo è (anche) il calcio.
Inzaghi, da parte sua, si porta dietro inoltre la nomea di "spia" di Berlusconi in rossonero e dei giornalisti in Nazionale. Un fedele della dirigenza, mai una parola fuori posto, sempre tra le righe (non soltanto quelle del fuorigioco). Con il suo approdo, si spera in una ventata di aria pulita, in una nuova generazione di giocatori. A riguardo nutro qualche perplessità, ma ammetto di essere alquanto incuriosito dalla tattica e dai tatticismi che adotterà, in particolare, quelli riguardanti la zona offensiva.
Spostandoci un pò più ad Ovest, nel tranquillo Piemonte, è scoppiato il caos. Nel giro di ventiquattro ore scarse, si è passati da Antonio Conte, simbolo del triplo trionfo italiano, a Massimiliano Allegri, totem dei travagliati ultimi anni milanisti.
Si sono tramandate tante voci, dal mercato all'ambiente societario. Voci simili, ma contrastanti. I tifosi si sono visti colpiti alle spalle e tutt'ora non sanno se dalla dirigenza o dal loro "condottiero" (Agnelli dixit). Non credo che emergeranno altri particolari, quindi provo ad analizzare la situazione senza troppe trame complottistiche. Conte aveva più volte rivelato il proprio scetticismo riguardo alla stagione ventura. O si cambia o me ne vado. Sono partiti Vucinic, Quagliarella, Peluso, metà Zaza e metà Immobile, sono arrivati (a meno di colpi di scena stile Iturbe) Morata e Evra, più Marrone e il giovanissimo Coman.
La società una volta liquidato Conte, probabilmente troppo "pretenzioso", la Juventus ha virato senza tanti ripensamenti su Allegri. Si è evitata un'altra figura importante come Mancini (pare ben voluto da Nedved).
Il tenico livornese non si è distinto particolarmente per il bel gioco, ma per la  gestione dei fuoriclasse nello spogliatoio. Non fu il solo artefice del crollo milanista che culminò con la sconfitta con il Sassuolo, ma anche in quel caso serviva un capro espiatorio. Credo che troverà un ambiente più incline alle sue caratteristiche, ma anche scettico e che non lascia molte possibilità. In questo Agnelli ha ereditato molto dalla propria famiglia.
Vento nuovo in Serie A, che alla luce del quattordicesimo posto dell'Italia nel ranking FIFA, può portare qualche buona boccata d'aria.

lunedì 14 luglio 2014

Fattore Superiorità

Che io rammenti, è molto raro che una squadra resti la favorita in tutto l'arco del Mondiale. E' successo quest'anno, è capitato alla Germania. Neanche le titubanti prestazioni con Algeria e Francia avevano fomentato dei dubbi. Loew prosegue il percorso inziato con Klinsmann, ma spingendosi ben oltre. Il suo mentore si era dovuto scontrare con il peggiore dei loro avversari l'Italia, nel 2006.
La Germania contro l' Argentina. Il gruppo contro le individualità, un coro contro undici solisti. La formazione tedesca è sicuramente quella più all'avanguardia. Ricchezza di centrocampisti, un tempo offensivi, ora relegati a pulire i panni sporchi (Kroos e Schweinsteiger) e un solo attaccante puro, Klose (con record di goal mondiali), più uno acquisito, Muller (capocannoniere).
Ieri sera ha deciso Goetze, il talento più cristallino. Stop di petto e tiro al volo su cross di Schurrle. Una nuova generazione di fuoriclasse, partita dai vivai tedeschi e giunta in capo al mondo. La prestazione della Germania durante tutto il Mondiale è stata una netta dimostrazione di superiorità.
Dall'altra parte, invece, grandi lottatori, quasi commuoventi. Mascherano, Zabaleta e Demichelis hanno dimostrato una dedizione fuori dal comune. Il primo, soprattutto e sopra tutti, per me, è stato il migliore giocatore del torneo. Chi ha deluso, invece, è stato lui, il campione più atteso, Lionel Messi. Ci ha provato, con rapidi dribbling e tocchi deliziosi. Ma niente più; forse sarebbe anche giusto risparmiargli il paragone con Maradona. Messi non è in grado di caricarsi una squadra, una nazione sulle spalle. Di Pibe de Oro ce n'è solo uno e rimane lontano, sull'Olimpo del Calcio. Oltretutto Messi non è mai stato, a differenza di Maradona, costretto a fare la partita da solo, ma piuttosto un terminale infallibile di un grande gruppo che aveva alle spalle come il Barcellona di Guardiola, era (ed è tutt'ora) una ciliegina sulla torta, più che la torta intera.
Il mio podio fu: Argentina, Germania, Brasile e Belgio. Non ne ho azzaccata neanche una: Germania, Argentina, Olanda e Brasile. Faccio come i verdeoro, inizio a pensare a Russia 2018, che è meglio..
Hanno vinto i migliori e ahinoi, non solo ci hanno raggiunti, ma sotto tanti punti di vista, tocca a noi inseguire.

mercoledì 9 luglio 2014

Fattore Massacro

No, non c'è stato bisogno di un altro Maracanazo. All'epoca furono Schiaffino e Ghiggia a sancire la più clamorosa sconfitta della Selecao. Fu in terra madre e ci furono più di cento suicidi in tutto il Paese.
Ieri sera sono stati sette ad aggiornare la Storia. Mueller, Klose, Kroos, Kroos, Khedira, Schuerrle, Schuerrle. Un vero e proprio massacro calcistico. Bisogna, però, paradossalmente, ringraziare i tedeschi per aver continuato a giocare, piuttosto che cimentarsi con irrisori passaggi di nostra spagnola memoria.
Scolari e il suo Brasile sono state vittime di sé stesse, della medesima pressione che facevano finta di saper reggere. La formazione è stata sbagliata, troppo offensiva e ben poco di sostanza. Affidata com'era alle fiammate individualità di Neymar, non ha saputo che aggrapparsi al gioco di squadra, il più scivoloso dei loro specchi. Certo, le assenze di Thiago Silva e di Neymar hanno pesato, ma non avrebbero comunque potuto evitare una sonora sconfitta contro la corazzata tedesca.
Questa sconfitta sta contribuendo ad attente analisi. Da una parte, una Nazione che fa emigrare i propri giocatori ancora acerbi e dall'altra una Nazionale che tramite profonde e rigide riforme ha conquistato quattro semifinali consecutive. La samba non ha ballato, ma si è stesa, sfinita, a terra.
E da buoni italiani subito ci siamo messi a guardare in casa nostra e ripeterci per l'ennesima volta che dobbiamo semplicemente emulare gli schemi altrui (a livello istituzionale, non a livello tattico, caro Prandelli e il tuo tiki-taka all'italiana). Partendo dai settori giovanili per arrivare alle leggi sul bilancio e passando per lo snellimento della massima Serie (18 squadre).
Vorrei poter criticare, prendendo come esempio il calcio tedesco, il nostro apparato, ma preferisco spendere due parole su Prandelli e le sue dichiarazioni rilasciate ieri, durante la presentazione in Turchia.
Mi sembra di ben poco stile, cosa che credevo di poter apprezzare in lui, le parole nei confronti di Balotelli. Mi chiedo infatti se non sia "leggermente" ipocrita criticarlo dopo aver basato su di lui una squadra, una Nazionale intera. Che non fosse un campione, ci voleva ben poco a capirlo, ma suona in contrasto con le serenate, le paternali e le lodi decantate prima dei Mondiali. Continua imperterrito in questo ruolo da mezzo prete e mezzo inquisitore e personalmente mi ha un pò stancato.
Si difende da chi lo appella "Schettino"; certo è un paragone un pò forte, ma che io sappia Schettino si è tolto dalla notorietà. (vedi articolo di Aldo Grasso: http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_06/fuga-il-bosforo-dell-ex-salvatore-patria-prandelli-61dfc72c-04db-11e4-915b-77c91b2dfa50.shtml)

lunedì 7 luglio 2014

Fattore Leggenda #4

Il mondo piange un'altra leggenda. Stasera se n'è andato Alfredo Di Stefano, stroncato da un infarto. Soprannominato la Saeta Rubia, è da considerarsi tra gli dei dell'Olimpo del pallone. Forse addirittura superiore a Pelè, Maradona e Cruijff. La sua eleganza è ben presto diventata un marchio di distinzione del proprio club, il Real Madrid. Lui e Puskas hanno probabilmente formato la coppia di attaccanti più forte di tutti i tempi.
"La gente discute di Pelé e Maradona. Per me il migliore è stato Di Stefano." affermò un giorno O' Rey Pelé.
 Ecco, di seguito, un articolo tratto da Storie di Calcio su questo straordinario uomo, simbolo del calcio madrileno.

LINK: http://www.storiedicalcio.altervista.org/di_stefano.html

DI STEFANO, MAI NESSUNO COME LUI



DI STEFANO, la «Saeta rubia» («Saetta bionda»), è stato qualcosa di più di un grande campione, e non ci sono schemi dove collocarlo e le prose che lo hanno raccontato sono state in ogni caso inferiori al suo talento, che era qualcosa di eccezionale nella misura in cui era originale.  
I veri assi non si ripetono, i geni anche nel calcio improvvisano con l'eccellenza di un'ispirazione che li fa ringiovanire ogni volta. Possono avere tutti i vizi del mondo ma li sublimano in quegli istanti, in quei minuti, in quelle ore, sia Pablo Casals il violoncellista quasi cieco e quasi sordo che a ottantanni suonava come un dio, sia Paganini il violinista genovese pagàno che metteva nel suo Stradivarius sortilegi e cavava note come tele di ragni e come arcobaleni sanguigni, sia Alfredo Di Stefano appunto di cui tento un profilo.
 Ci hanno provato in tanti magni crani a raccontarlo. Carlos Zeda, scrittore e giornalista madrileno, ha affermato che in lui c'era il compendio delle qualità dell'atleta sognato da Platone. Gioanbrerafucarlo, la cui opera «Coppi e il Diavolo» è un capolavoro di scrittura e di sensibilità a memoria di un giornalismo sportivo che onora la cultura italiana, ha scritto che è stato superiore a Pelè. 1.75 di atleta per 77 chili oscillanti che sul prato verde diventava un gigante con cento occhi e mille piedi, l'espressione fuori da iperbole del calcio eclettico, per cui assolveva al lavoro di tutti i ruoli, sapeva essere difensore incontri sta e attaccante rifinitore, nonché lussuoso elegante leggero e possente centravanti. Si assommavano in Di Stefano effettivamente tutte le doti del calciatore.

Come classe pura era esemplare in quanto eseguiva le cose più difficili con semplicità. Cosi gli arresti ovvero gli stop sulle parabole più astruse, così gli shot per il passaggio come usava solo «Farfallino» Borel, così il colpo di testa secco a seguire in fondo alla rete, così a tempo e luogo il dribbling, quando un compagno andava a liberarsi, ma soprattutto la consapevolezza che in campo non si deve mai sprecare niente, che il pallone deve essere esercitato come un tesoro, subito passato al volo senza perditempo, un passaggio immediato e tempestivo supera in ogni caso l'avversario, lo disorienta. Alfredo Di Stefano era nato a Buenos Aires nel rione di Barracas il 4 giugno 1926. Subito si pensa che un genio come lui poteva nascere soltanto in quella capitale del mondo, in quella città senza confini, dove ogni razza è libera di vivere, dove bianchi e neri, siciliani e turchi, trovano, un angolo, un riparo.

VIVERE NELL'AGIATEZZA                                    
Alfredo nacque nella squadra ragazzi del River Plate. Il suo idolo era Arsenio Erico, centrattacco dell'Independiente, un tipo fosco che non degnava di un saluto nessuno, che veniva a prelevare lo stipendio trovandolo sempre inferiore ai suoi meriti che erano del mas grande mai visto in tutto l'orbe terracqueo. Alfredo quattordicenne ne possedeva tutti gli opuscoli biografici e un mazzo di fotografie, esattamente centodue fotografie di cui sei firmate dal suo idolo. Era andato ad aspettarlo e lo invocava bevendoselo con i suoi occhi chiari di ragazzo innamorato di pallone e di gloria. Il talento di Di Stefano fu subito notato, ma i tecnici non convenivano che potesse riuscire a farsi largo. Nel River Plate giocava un altro fuoriclasse dai piedi magici, ovvero «Il divino» Adolfo Pedernera, che era per natura sospettoso e cominciò in allenamento a fare dei dispetti a quel ragazzo fin troppo ambizioso. Fatto è che il River Plate pensò bene di cederlo in prestito all'Huracan. E Di Stefano andò per dimostrare le sue qualità. Era cresciuto a diciotto anni il suo fisico con il suo gioco. Ormai giocava alla Di Stefano, riempiva il campo da solo, risolveva un sacco di problemi tattici all'allenatore che poteva disporne. Un particolare del carattere di Di Stefano si deve subito precisare, perché sia lampante come il suo stile di calciatore arrivasse già dai grattacieli. I genitori piccolo borghesi non gli avevano mai fatto mancare nulla. E lui voleva vivere nell'agiatezza, voleva avere sempre soldi in tasca e vestire da signore. Quello che sembri sei era il suo motto. Gli piaceva già tutto, a diciotto anni. Mangiare, bere, fare all'amore. Ma senza stancarsi troppo, senza concedere troppo. Per divertire lo spirito.

L'ATTACCO DEI PRODIGI                                       
Nell'Huracan Di Stefano gioca le sue prime eccezionali partite. Il mondo argentino del calcio è in subbuglio. Pedernera il divino accusa i morsi degli anni. Il nuovo allenatore del River Plate, Pepe Monella, accogliendo con entusiasmo l'incarico di guidare la squadra, pone come condizione il recupero del giovane, ora ha
vent'anni, è il 1946, anzi il rientro alla base, di Alfredo Di Stefano. Naturalmente col sacrificio di Pedernera. Viene accontentato. E così il River Plate ha un trio d'attacco dei prodigi Moreno, Di Stefano, Labruna, Chi li può fermare? Chi può fermare Moreno, secondo solo a Di Stefano? Ma chi può fermare soprattutto il genio di Di Stefano? La scuola di Moreno è quella che serve. Moreno è un mezzo matto, in campo ha un suo modo di gestire la professione, di esercitarla. A parte una specie di grido di guerra che lancia «A papà, a papà!», come un richiamo al capofamiglia, come un solleticare le sue più ancestrali ambizioni a farsi ammirare, Moreno è rabbioso e truculento nella lotta, ma furbo, furbissimo. Nessun arbitro gli ha mai visto fare un fallo, ma quanti ne ha azzoppati lui! Accanto a Moreno, Di Stefano svolge la sua parte di orchestratore, ispira e inventa il gioco per tutti, è sempre smarcato a seguire, l'uomo-squadra è lui, di altri, dello stesso Moreno, possono essere certe squisitezze o ghirigori, di Labruna è il tiro di inaudita potenza, ma di Di Stefano è l'arte del comando, la disci- plina tattica. Nel 1947 il River Plate vince lo scudetto e Di Stefano segna ben ventisette gol. I giornali son pieni di lui. Lui è la «Saeta rubia». Ma ora deve andar militare. Ci va mugugnando, perché son tutti quattrini persi e lui vive per i guadagni.

A CACCIA DI DENARO E GLORIA
Al suo biografo ufficiale, Cesar Pasquato di «El Grafico», Di Stefano a fine carriera ha detto: «Per diventare bravi giocatori occorre pensare giorno e notte al pallone. I giovani che vogliono fare solo quattrini senza fatica o svolgere altri mestieri, anche soltanto per distrarsi, mentre giocano da professionisti, sbagliano, perché infallibilmente toglieranno, anche senza accorgersene, tempo prezioso al loro mestiere. Io non sono mai stato molto disciplinato nella vita privata, ho bevuto botti di vino e ho mangiato quintali di pesce fritto, ma tutto questo mi serviva per stordirmi e non pensare ad altro. E dormire. Ma in sostanza io mi sono mortificato in campo in allenamenti durissimi, mentre nei giovani d'oggi c'è la tendenza ad allenarsi poco e a non saper soffrire. Gli allenamenti duri, massacranti, estenuanti, sono indispensabili ad un campione, formano il campione. A me hanno dato l'ossatura. Il campione deve essere ambizioso ogni giorno di più, ogni giorno più ambizioso del giorno prima». 
 Passione per il calcio, sterminata ambizione a titolo personale, creano il mito di Di Stefano. «La Guita», il denaro, è tutto per lui. A un certo punto non gli basta più il River, il denaro che gli danno gli par poco, nel 1950 viene a sapere che la Colombia, il paese sudamericano uscito dalla Federazione Internazionale, c'è la possibilità di guadagnare venti volte di più. Insalutato ospite, sparisce dalla circolazione, si imbarca nottetempo in un aereo e va a giocare in Colombia. Dal '50 al '53, da 24 a 27 anni, gioca nel Millonarios di Bogotà, gol come se piovesse, donne a profusione, piaceri di ogni genere, gloria gloria gloria. E l'eco delle sue gesta raggiunge l'Italia, precisamente la Roma, che nel '53 avrebbe la possibilità di ingaggiarlo. Ma quei nostri furboni di i romanucci, dopo l'ennesima riunione di consiglio, ispirati da un biondo Frascati freddissimo, arronzano che è troppo vecchio, no, no, non vale la spesa...

CON KOPA E GENTO A MADRID
E' nato il Real Madrid di cui Saporita è il genio tecnico organizzativo, riesce a soffiarlo al Barcellona e lo fa suo. Di Stefano parte alla conquista della Spagna, il Paese si può dire della sua vita. La Spagna lo intenerisce e lo appassiona. II Real Madrid gli entra nel sangue. Tocca i vertici funambolici del rendimento. La «Saeta rubia» è più «Saeta» che mai. Con la squadra madrilena di tutte le leggende vince dal '54 al '60 cinque Coppe dei Campioni, percependo ogni anno 39 milioni d'ingaggio e uno stipendio mensile di 500 mila lire. Per acquistarlo, il Real Madrid aveva pagato al River Plate 150 milioni di lire, nove scudetti di Spagna vinti da Di Stefano col suo Real. Dominguez il portiere, Marquitos e Zarraga i terzini ondeggianti, Santisteban, Santamaria e Ruiz la mediana-diga, Kopa il cervello del gol, sette di maglia, Mateos l'interno destro, Di Stefano il perno della strategia, l'uomo-guida, il maestro in campo, guai a sgarrare, predice tutto, insegna col gesto, gioca a testa alta e vede gli errori, Rial mezzo sinistro e ala sinistra Gento il funambolico, il piede di velluto più dolce e melodioso dopo quello di Rinaldo Martino. Nel 1960, quando ha trentaquattro anni, l'anagrafe non conta per lui, Di Stefano è valutato cifre iperboliche. Vale un miliardo di lire, i giornali spagnoli si occupano più di lui che di politica. Diventa famosa una battuta, in Italia, all'arrivo di Del Sol, forte corridore e campione: «Ha portato le valigie a Di Stefano». Qualsiasi campione può portare le valigie ad un asso così.Nel 1963, il 24 agosto, i castro-comunisti lo rapiscono, lo vanno a prelevare nell'albergo in cui dormiva, il Potomac, alle sette del mattino, spacciandosi per ufficiali di polizia del reparto antidroga. Il colpo avrà un eco mondiale. I rapitori dopo 56 ore libereranno Di Stefano senza torcergli un capello. Azione dimostrativa per scuotere il mondo.

UN GENIO
Di Stefano si considera ormai spagnolo e si è naturalizzato da tre anni. Viene a trovarlo da Buenos Aires Cesar Pasquato e Alfredo si sfoga, raccontandogli la sua vita. La Spagna ha saputo tenerselo, ha saputo amarlo. Ci vogliono strepitose tenerezze, ci vuole una sopportazione infinita con i geni. In ogni campo del vivere il genio è uomo scorbutico, duro e tenero, intrattabile e umile. Il biondo Di Stefano che ormai perde i capelli cui tiene tanto, involontariamente ha inventato il calcio totale, il calcio che ha superato i ruoli. Lui è stato un centravanti, ma anche una mezzala, un mediano, un'ala, un terzino. In qualsiasi punto del campo un genio è genio. I gol sono fioccati dal suo piede. In vent'anni di carriera ha infilato la bellezza di 529 gol, in Spagna è stato capocannoniere nel '54, nel '56, nel '57, nel '58 e nel '59. Quando non lo è stato è perché non ne aveva voglia. I suoi gol sono sempre il risultato di eccellenti manovre. Nella nazionale argentina ha giocato 27 volte, e 31 in quella di Spagna. Nel 1957 e nel 1959 «France Football» gli ha assegnato il «Pallone d'oro» come migliore calciatore europeo. Forse il suo sangue misto ne ha agevolato certi estri pungenti, certe ribellioni, certi spunti di rabbia e passione gelavano gli avversari. Fu grandissimo, fu mostruoso. Ne nascerà mai più uno così...?

Grazie Leggenda.

 

domenica 6 luglio 2014

Fattore Romanticismo

Sono stati giocati dei quarti non spettacolose. Pochi goal segnati, penuria di supremazia. Ma c'è stato, d'altro canto, qualcosa di ormai perduto, che ai giorni nostri si può trovare in qualche squadra o nelle sempreverdi bandiere, uomini che giurano fedeltà alla propria casacca: il romanticismo. Partiamo da Francia-Germania. Partita avara di spettacolo e dettata più che altro da un forte orgoglio nazionalistico tra due paesi storicamente nemici sui campi di battaglia (e di gioco). Vittoria striminzita dei tedeschi per 1-0, capocciata di Hummels. Passiamo a Brasile-Colombia. Più che una partita di calcio, una guerriglia tra sudamericani. Da una parte Neymar, dall'altra James Rodriguez. Tanta classe, un pò fine a sè stessa. Finiscono entrambi in lacrime; uno per un fallo di Zuniga nella zona lombare, l'altro per l'eliminzaione dal torneo. La Colombia trascinata dal suo capitano, Yepes, ha dato filo da torcere ai padroni di casa. A risolvere le cose sono stati Thiago Silva, un goal piuttosto fortunoso, e David Silva, con una punizione da una trentina di metri. Ammetto che è stata efficace, ma un tiro con il piattone non si può proprio vedere. Ecco dunque Argentina-Belgio. L'Albiceleste si dimostra un buon gruppo a livello individuale. I meccanismi non sempre girano alla perfezione, ma il ritmo è dettato da Lionel Messi e le sue giocate, mica quisquiglie. Fortunata sul goal, sventurata con l'infortunio di Di Maria, il cui sinistro è sempre un belvedere. Forse hanno trovato un desaparecido: Gonzalo Higuain, trasformato da "spillo" a "pugnale" dopo la rete messa a segno. Gli argentini rimangono i miei personali favoriti per alzare la Coppa. Infine Olanda-Costa Rica. Da una parte chi era già stato dato per morto e sepolto, dall'altra chi, da vittima sacrificale, è diventata la Cenerentola centroamericana dei Mondiali. Pali e traverse, attacchi e ripartenze, assedi e catenacci. Alla fine ha trionfato lui, Louis Van Gaal. Ha rivoluzionato l'intero calcio olandese. Si è liberato del caro 4-3-3 per abbracciare la difesa a tre, inventandosi il 34enne Kuyt tornante e terzino a seconda dei casi. E poi la scelta più importante, fuori Cillessen e dentro Krul (che personalmente terrei titolare). Si tratta di una di quelle decisioni che possono fare solo i Maestri con la "emme" maiuscola. Mi riporta alla memoria la scelta di Lippi per il quinto rigorista in quel di Berlino: Grosso. Lui segnò e ci fece perdere la voce dalle urla. Krul ha parato due rigori e spinto gli Oranje verso l'Argentina.

Confesso che mi aspettavo qualcosa di più dal Belgio. Ma insieme alla Colombia, non ha di certo tradito le (mie) aspettative. Lo considero, personalmente, un altro piccolo pronostico azzeccato. Saranno due semifinali da non perdere. La spada tedesca contro la samba brasiliana, il fioretto olandese contro il tango argentino. Muller contro David Luiz, Robben contro Messi. Ah romanticismo, quanto mi sei mancato..

domenica 29 giugno 2014

Fattore Centimetri

Questione di centimetri, la traversa di Pinilla al 119'. Questione di centimetri, il palo interno del rigore decisivo. Tutta una questione di centimetri. Ogni cosa, dall'arbitro giapponese della prima partita ai fortunosi casi di ieri, passando per l condizione strepitosa di Julio Cesar, sembrano sostenere che sará il Brasile a trionfare sul resto del mondo. Il Cile ha fatto il possibile. Sampaoli ha costruito una squadra compatta, dove persino Isla, comparsa alla Juventus, riesce a tenere a bada un colosso come Hulk. Due fuoriclasse su tutti: Vidal e Sanchez. E Medel, un eretico del suo ruolo con i suoi soli 1,71 centimetri di altezza.
Dall'altra parte un Brasile che va a fiammate, di solito del suo talento piú atteso, Neymar, che ha deciso di prendersi non solo la squadra, ma anche tutta la nazione sulle sue gracili spalle. Accanto a lui, tanti bei giocatori, che peró Scolari, di sicuro non un totem del bel gioco, non riesce a sistemare in una orchesta un minimo armoniosa. Manca un riferimento in mezzo al campo, uno che riesca a far arrivare la palla ai tre davanti senza passare per lanci improbabili. Uno che giochi semplice. Ci sarebbero Oscar e Willian, che peró, tra posizioni in campo non ideali e forma non ottimale, paiono piuttosto spaesati.
Il Brasile deve cambiare in fretta; é vero non troverá sempre il Cile davanti a sé, ma vincere giocando male, é un benevolo segno che qualcosa deve essere aggiustato. I rigori di ieri devono essere un ulteriore incentivo a non trascurare troppo i propri difetti

mercoledì 25 giugno 2014

Fattore Fallimento

Parlare adesso è come sparare sulla Croce Rossa, ma è necessario farlo. La partita di ieri sera è stata quella che ha sancito un grande fallimento, forse il più grande della storia del calcio italiano. Non esagero, purtroppo. Parto dal 2010. Lippi esce distrutto dall'esperienza sudafricana con un girone morbido: Italia, Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia. Ci fu una mancanza di ricambio adeguato. Non c'era più quella impertinente spensieratezza che ci aveva portato sul tetto del mondo a Berlino. Era una squadra che aveva bisogno di dimostrare molto e alla fine non dimostrò niente.
La panchina venne affidata a Cesare Prandelli, persona squisita, ma con un curriculum non certo di un vincente. Agli Europei del 2012, riuscimmo, a fatica e a sorpresa a conquistare il secondo posto. La Spagna campione di tutto ci rifilò un sonoro 4-0. Complici furono, allora, le scelte di formazione di Prandelli, che vollero premiare anche giocatori che non avevano nè testa nè fiato per giocare, su tutti Chiellini e De Rossi.
Da allora sono state sprecate (e mi raccomando non spese) tante, troppe parole. Riguardo a tutto: sul ruolo "politico", sul ruolo etico e sul ruolo tattico di una Nazionale povera di campioni e acerba di talenti.
Prandelli ha difeso a spada tratta Balotelli, esaltando i suoi pregi, come si fa con i soprammobili da mettere in prima vista, e nascondendo i suoi limiti, come si fa con la polvere sotto il tappeto.
Ha applicato il cosiddetto "codice etico", sulla cui utilità e chiarezza, nutro ancora profondi dubbi. E' stato applicato solo quando conveniva, vedi i casi riguardanti Criscito e Bonucci, Destro e Chiellini.
Infine, ha mandato in Brasile un gruppo di giocatori, che chiamare "squadra" sarebbe una battuta piuttosto audace. Partendo dalla convocazione di Cassano, fuori dal giro della Nazionale da più di un anno, fino alla fiducia in Thiago Motta e Balotelli. Prandelli è stato vittima del suo orgoglio al momento delle convocazioni e della sua pancia da tifoso in campo. Si è fatto promotore del 4-3-1-2 per anni, pur sapendo di non avere un trequartista degno di questo nome, per arrivare in Brasile con il 3-5-2, passando inoltre per il 3-6-1 (sì, sono d'accordo con Zeman). Si è passati dalle due punte più mezzali improvvisate trequartisti per arrivare all'unica mezza punta. Confusione totale.
Arrivando alla partita di ieri, il fallimento è figlio di due padri. Il primo, l'arbitro. Il rosso di Marchisio e l'azzannata di Suarez (che andrebbe allontanato dai campi di gioco per il bene dei giovani che potrebbero prenderlo d'esempio), sono errori da matita blu. Il secondo padre, quello più influenzante è stato Prandelli e le sue scelte. Su invocazione popolare ha schierato la difesa a tre, pur non essendone uno stimatore, e la coppia Balotelli-Immobile, pur non essendone convinto. Poi si è passati dalla sostituzione peggiore che potesse fare: fuori un attaccante per un centrocampista, Balotelli per Parolo. Si è passati, successivamente, alla seconda sostituzione peggiore che potesse fare: fuori una punta "di movimento" per una mezza punta piuttosto spuntata, Immobile per Cassano. Infine, come se non bastasse, fuori Verratti per Thiago Motta. . Aggiungere un centrocampista di livello mediocre, un giocatore finito anni fa e uno con grossi limiti tecnici, sono, questi sì, stati gli errori che ci hanno buttato fuori dal Mondiale.
Prandelli ha rassegnato le dimissioni, giusto. Con lui anche Abete e compagnia bella, sacrosanto. Ora basta dirigenti che non capiscono di calcio, portati sul trono dalla politica e dal potere. Hanno fallito una sfilza di incompetenti, obsoleti e vittime delle loro stesse vane parole.
Vorrei solo aprire una breve parentesi su Tabarez, Lugano e Suarez. Le loro parole, i loro comportamenti sono aberranti, indifendibili. Negare i fatti, sbandierare la falsa moralità e nascondersi dietro all'indifferenza, sono atteggiamenti riprovevoli sia per un vecchio allenatore, sia per un capitano e sia per un grande talento.
Da parte nostra è ora che si riparta da zero, tornando a parlare, finalmente, di calcio.

venerdì 20 giugno 2014

Fattore Costa Rica

Ed ecco il tracollo. Speravo, speravamo con un'altra squadra; un'altra piccola Corea (2002), forse un'altra Nuova Zelanda (2010). Il Costa Rica batte, meritatamente, un'Italia senz'anima, senze idee e senza fiato. Completamente sbagliate le scelte Thiago Motta e Abate. Il primo gravato dal fisico non troppo resistente e non di sicuro da velocista, ma non è una cosa che si scopre oggi. Il secondo vittima di uno stato di forma pessimo, che si è trascinato dietro negli ultimi mesi al Milan. Prandelli ha cercato di riparare la pezza inserendo Cassano, sulla cui tenuta fisica credo di aver già dato opinioni non troppo favorevoli e Insigne in una posizione non ottimale per esprimersi. Risultato: buio pesto. E noi, buoi pestati, senza tanti giri di parole.
Troppo concentrati sul difenderci da Joel Cambpell, ci siamo completamente dimenticati di attaccare, lasciando Balotelli in balia dei suoi pregi e difetti.
Raccogliamo gli appunti della lezione più vecchia del mondo: ai Mondiali non si fanno conti. Non si pensa al turnover e non si sottovaluta neanche il piccolo staterello situato tra Panama e Nicaragua.
Il prossimo giro, quello con l'Uruguay, è da dentro e fuori. Non voglio ritirare fuori l'ormai sfruttata credenza secondo cui tiriamo fuori il meglio di noi stessi solo con le spalle al muro, lo facemmo anche nel 2010. E non ci fu, ahinoi, un lieto fine. Basta solo giocare, cosa che, stasera, non siamo riusciti a fare.

domenica 15 giugno 2014

Fattore Inghilterra

L'Italia regge e regola l' Inghilterra con un giusto 2-1. Partita piacevole, di sostanza, ma non perfetta. Prandelli ha scelto una buona formazione, ma non è ancora riuscito a sistemarla bene in campo: ci sono ancoramolte zone scoperte e le numerose parate di Sirigu ne sono la conferma, più che le prove. Il goal di Sturridge è iuttosto emblematico; assenza dei terzini, mal disposizione di Paletta e insaccata del colosso nero. Un' azione da manuale. Ci sono state altre occasioni simili, per nostra fortuna è sempre mancata la precisione determinante.
Nonostante ciò, una bella Italia. Non sono ancora del tutto convinto dalla posizione di Verratti. Mi sembra, che più che a Pirlo, pesti i piedi a De Rossi. Ma siamo solo agli inizi, c'è tutto il tempo per migliorare queste piccole imperfezioni. Avevo optato, come migliori giocatori, per Darmian e Candreva da una parte e Baines e Sterling dall'altra. Direi che ci ho preso, nonostante debba avere una nota di merito anche Balotelli. Non è semplice, per uno con le sue caratteristiche, reggere tutto il fronte offensivo. E' riuscito a tenere duro e alla fine, si è preso pure il premio del goal-partita.
L'Inghilterra, da parte sua, ha disputato una discreta partita; sono sicuro che dimostrerà il proprio valore anche nelle prossime partite. Un pò di precisione in più e staremmo parlando di un pareggio.
Le uniche note stonate della partita sono Paletta e Chiellini terzino. Al primo avrei preferito di gran lunga Bonucci, con il secondo non avrei azzardato quella posizione, dal momento che con Conte non la più mantenuta da due anni e mezzo.
Ora sotto con la Costa Rica, che ha fatto fessa l' Uruguay di Tabarez e Cavani. Sarebbe un brutto colpo uno scivolone con i Ticos, dopo aver domani i Tre Leoni.

sabato 14 giugno 2014

Fattore Pronosticao

L'Olanda era stata data già per morta. Invece, come nelle più appassionanti e crudeli partite, gli orange si sono presi una grand bella rivincita. Cinque goal e vendetta servita. Due grandi squadre a confronto, con i due allenatori migliori al mondo. Da una parte l'arrogante e intransigente Van Gaal, dall'altra il pacato e pacificatore Del Bosque. Calcio verticale contro calcio orizzontale. Per anni ha dominato il secondo, ma ieri sera il palcoscenico se lo è preso il primo. Perdonate la schiettezza, ma dopo anni di noia, ho finalmente goduto anch'io.
L'Olanda ci farà vedere grandi cose, Van Persie e Robben permettendo. Le Furie rosse usciranno comunque a testa alta, ne sono convinto.
Stasera o domani mattina, come preferite, l'Italia affronterà l' Inghilterra. La squadra di Hodgson non è quella di due anni fa, è un mix di giocatori esperti e giovani promesse, proprio come l'Olanda. Hodgosn non è Van Gaal, ma conosce il calcio meglio di Prandelli. Nonostante ciò non credo che arriverà una sonora batosta. La giungla e il suo clima impervio possono giocare brutti scherzi, da entrambe le parti.
Loro non hanno pressioni, noi non abbiamo più quella somma referenza nei loro confronti. Vincerà più il fisico che la tecnica, protagonisti saranno Darmian e Baines, Candreva e Sterling.
Riguardo ai pronostici che feci mesi fa, direi che posso parzialmente riconfermarli. Dissi che le sorprese sarebbero state Belgio e Colombia: riconfermo la prima e dubito sulla seconda, vittima di Falcao e diversi altri. Per le favorite nella vittoria finale dico Argentina, Germania, Brasile (aiutini inclusi) e Belgio.
Ai posteri l'onere di smentirmi.

mercoledì 11 giugno 2014

Fattore Brasile #5

A un giorno dall' inizio dei Mondiali in Brasile, ho deciso di ripercorrere le gesta di alcuni simboli del calcio brasiliano e del Brasile. Paese di grandi talenti, alcuni rimasti solo meteore, altri diventati stelle.
Continuo dunque questa breve rubrica con un uomo molto particolare. Dotato di una classe immensa, di un dribblig ubriacante, ma anche di una piccola malformazione fisica; sono queste le caratteristiche che, in poco tempo, lo hanno consacrato come una delle più celebri icone del calcio brasiliano. Sto naturalmente parlando di Manoel Francisco dos Santos, meglio noto come Garrincha. Putroppo la sua fine fu più ingloriosa di quello che avrebbe dovuto essere. Non tutte le belle storie hanno il lieto fine.
Ecco un articolo tratto dal portale StorieDiCalcio

LINK: http://www.storiedicalcio.altervista.org/garrincha.html

IL GARRINCHA: L' ANGELO DALLE GAMBE STORTE


La sera nel 20 gennaio del 1983 all'ospedale Alto da Boavista sopra Rio de Janeiro, due medici, Ana Helenio Bastos e Maria Beatriz Carneiro da Cunha mettono Garrincha su una sedia a rotelle e lo trasportano al padiglione Santa Teresa, quello riservato agli alcolizzati. Gli somministrano del siero glicosado, Griplex, Lasix e vitamina B e dicono agli inferimieri di legarlo al letto, se necessario.Garrincha è lasciato addormentato e solo, la stella più solitaria di quella notte estiva. Tutto il suo corpo era in rivoluzione, quel corpo che non gli servirà più per scattare sulla linea destra e trasformare i suoi dribbling, sempre eguali e sempre diversi, in autentici numeri che hanno fatto delirare milioni di fanatici del calcio. Quel suo corpo che non gli servirà più per avere e dare piacere alle molte donne che ha avuto.



Quel suo corpo che non servirà più a metabolizzare tutte le bottiglie di cachaça che ha bevuto, quel corpo non gli servirà più a niente. L'autopsia rivelerà che il suo cervello, il cuore, i polmoni, il fegato, il pancreas, l'intestino e i reni, erano parzialmente distrutti dall'alcol. Un edema polmonare lo ammazza a metà dell'alba. Alle sei del mattino del 21 gennaio 1983, l'infermiere Aimorè chiamò la dottoressa Fatima che constatò il decesso. Lei prese prese carta e penna e informò la direzione dell'ospedale. Muore così Manoel Dos Santos, detto Garrinchia, uno dei pochi brasiliani che non ha bisogno di presentazioni. Anche chi non sa di football sa che fu un genio del dribbling, eroe di due campionati del mondo, l'uomo più amato dell'intero Brasile. Sa anche della sua unione con la cantante Elza Soares e che dalla pagine sportive è passato in quelle scandalistiche per le sue drammatiche vicende di alcolizzato. Quando muore Garrincha, a 49 anni, nella miseria e nell'abbandono, un sentimento di colpa di abbatte su tutto il Brasile, che ancora una volta si dimostra ingrato con uno dei suoi figli più ingenui e più amati.


La stella di Garrincha comincia a splendere il 13 marzo del 1953. Gioca in una squadra amatoriale, il Serrano di Petropolis, lo portano a Rio per un provino al campo del Botafogo.Quel giorno sono in pochi e, fatto inedito e straordinario, trova posto nelle riserve che giocano contro i titolari. Garrincha gioca ala destra e si trova di fronte il più grande laterale sinistro di ogni epoca, quel Nilton Santos che ha un soprannome che dice tutto: Enciclopedia. Su quel provino sono stati scritti intere pagine di giornale, chi dice che Garrincha fece fare una figuraccia al grande Nilton, chi racconta che alla fine Nilton lo voleva prendere a cazzotti e così via.

Dai ricordi di Nilton: "Quando lo vidi mi sembrava uno scherzo, con quelle gambe storte, l'andatura da zoppo e il fisico di uno che può fare tante cose nella vita meno una: giocare al calcio. Come gli passano la palla gli vado incontro cercando di portarlo verso il fallo laterale per prendergliela con il sinistro, come facevo sempre. Lui invece mi fa una finta, mi sbilancia e se ne va. Nemmeno il tempo di girarmi per riprenderlo e ha già crossato. La seconda volta mi fa passare la palla in mezzo alle gambe e io lo fermo con un braccio e gli dico: senti ragazzino, certe cose con me non farle più. La terza volta mi fa un pallonetto e sento ridere i pochi spettatori che assistono all'allenamento. Mi incazzo e quando mi si ripresenta di fronte cerco di sgambettarlo, ma non riesco a prenderlo. Alla fine vado dai dirigenti del Botafogo e dico: tesseratelo subito, questo è un fenomeno..."E nei primi giorni di giugno, il giugno del 1953, il Botafogo acquista Garrincha dal Serrano di Petropolis per cinquecento cruzeiros, una cifra che rapportata ai giorni nostri equivale a ventisette dollari, la cifra più bassa che sia mai stata scritta su un contratto professionistico nella storia del calcio brasiliano. Garrincha diventa la stella del Botafogo e poi quella della nazionale brasiliana dove debutta il 18 settembre del 1955. Con la maglia oro-verde giocherà quarantun partite, perdendo soltanto l'ultima (Ungheria-Brasile del 15 luglio ai Mondiali del 1966). Durante il lungo raduno prima della spedizione in Svezia per i campionati mondiali del 1958 tutti i giocatori vengono sottoposti a dei test di intelligenza. In un punteggio da 0 a 123 Garrincha totalizzò 38 punti...



Un cronista lo venne a sapere e gli chiese se si considerava un mezzo idiota. "Non sarò Rui Barbosa, ma per fortuna non sono nemmeno Mazola...". Questa la risposta. Mazola era il giovane centravanti del Palmeiras che poi avrebbe giocato in Italia con il vero nome di Altafini. La relazione su Garrincha spiegava: "Ha la psiche di un bambino di quattro anni, non ha l'intelligenza per fare l'autista d'omnibus". Curiosa la relazione su Pelè al quale il dottor Carvalho, lo psicologo, attribuì un punteggio di 68, da idiota o quasi. "Pelè è un infantile, gli manca il necessario spirito alla lotta, è troppo giovane per reagire con l'adeguata aggressività, non ha senso di responsabilità necessario allo spirito di squadra, ne sconsiglio la convocazione". Garrincha e Pelè hanno giocato assieme nella nazionale brasiliana dal 1958 al 1966 senza perdere una partita.

Il Brasile prima di sbarcare in Svezia gioca diverse amichevoli in Europa, in una delle quali, a Firenze contro la Fiorentina, Garrincha parte titolare. L'hanno fortemente voluto in squadra i componenti la commissione interna: Didi, Nilton Santos, Zito e Zagalo. Garrincha entusiasma, dribbling e assist, poi sul 3-0 lascia tutti a bocca aperta: punta Robotti, lo scarta, poi evita il portiere e invece di mettere la palla in rete aspetta ancora Robotti. Lo dribbla un'altra volta mandandolo per terra e poi segna ridendo sguaiatamente. Alcuni giocatori brasiliani gli corrono incontro, non per abbracciarlo, ma per dargli un cazzotto. Gli urlano: "Cretino, certe cose non si fanno, altrimenti prima o poi troverai qualcuno che ti spezza una gamba".

In Svezia salta le prime due partite perché la sera prima lo trovano ubriaco. Nella terza, in tre soli minuti distrugge letteralmente l'Unione Sovietica. Mezza difesa avversaria dribblata, una traversa, una paratissima di Jascin e una palla gol (realizzata) a Vavà. E' Mondiale, ma tutti osannano Pelè, la diciassettenne meraviglia nera. Josè Altafini, ora brillante commentatore televisivo, ricorda quel Mondiale giocato con il soprannome di Mazola. "L'ha vinto Garrincha, come quello di quattro anni più tardi in Cile. Tutti dicono Pelè, ma senza Garrincha quel Brasile non sarebbe stato immenso".



In Cile l'infortunio a Pelè nella prima partita responsabilizza ancor di più Garrincha che fa tutto: il centrocampista, l'attaccante e ilo goleador. Nella semifinale con il Cile viene espulso per aver aggredito a calci nel sedere il difensore Rojas, e per non fargli saltare la finale (come da regolamento) interviene persino il primo ministro del Brasile, Tancredo Neves, chiedendo alla Fifa che non venga applicata la squalifica per meriti sportivi. Scrive persino che Garrincha in tutta la sua carriera si è sempre distinto per correttezza e che mai e poi mai è stato espulso e chiede, in nome del popolo brasiliano, il perdono di Garrincha.

Si muove la diplomazia internazionale, viene fuori l'anticomunismo ("Se vincesse la Cecoslovacchia sarebbe il trionfo degli eredi di Stalin" gridano i dittatori brasiliani) e il presidente del Perù, Manuel Prado y Ugarteche, attraverso l'ambasciatore in Cile chiede che Yamasaki (l'arbitro cileno che aveva espulso Garrincha) scriva nel suo referto che c'è stato un errore di persona... E nel caso fosse chiamato a deporre anche il guardialinee i dirigenti brasiliani intervengono anche su di lui: l'uruguayano Esteban Marino. Questi viene accompagnato all'aeroporto di Santiago dai dirigenti Falcao e Di Giorgio, viene fatto salire su un aereo per Montevideo, con scalo (di dieci giorni) a Parigi...

Garrincha fu assolto con cinque voti a favore e due contrari. E pensare che prima di quella partita Garrincha era stato espulso tre volte: il 20 giugno del 1954 in Botafogo-Portuguesa, ma in quell'occasione per la verità l'arbitro Monteiro espulse tutti e ventidue i giocatori e annullò la partita al 31'del secondo tempo. La seconda espulsione di Garrincha il 30 novembre 1954 in Botafogo-Atletico Mineiro e la terza il 23 giugno 1956 in Barcellona-Botafogo, nella città spagnola.

Garrincha gioca la finale e risulta decisivo come in tutte le altre gare in Cile. C'è anche Elza Soares, la stella della canzone brasiliana con una storia alle spalle, al confronto della quale quella di Garrincha sembra un picnic domenicale. Elza quando conosce Manè ha trentun anni, tre più di lui. Cresciuta in una favela, sposata a tredici anni con Alauerde Soares, l'uomo che l'aveva stuprata tre anni prima, otto figli, dei quali tre morti per fame, vedova a venticinque anni, quando conosce Garrincha sta uscendo dalle umiliazioni della vita. La storia d'amore è una passione travolgente che dura quasi venti anni. In Cile la stella di Garrincha è all'apice, ma ben presto inizia la parabola discendente.

E' alcolizzato da tempo, i compagni non lo aiutano di certo, è lasciato solo, ricade nella miseria più nera e l'alcolismo lo divora giorno dopo giorno. Gli ingaggi sono sempre più rari e all'inizio degli Anni '70, quando segue Elza in una tournèe in Italia gioca anche a Torvaianica, in una squadra dopolavoristica che si chiama Lazio. Torna in Brasile e da ubriaco, guidando senza patente, in un incidente ammazza la suocera. Un altro incidente era accaduto anni prima e aveva investito il padre, scampato alla morte per miracolo.

Tenta il suicidio, continua a bere e ad avere figli. Alla fine quelli riconosciuti saranno 14, undici femmine e tre maschi, più Ulf Lindberg un figlio avuto da un'avventura con una svedese ai Mondiali del 1958. La parabola discendente di Garrincha non rallenta nè si ferma. Anzi. Precipita negli abissi della miseria più nera e dell'abbandono. La morte arriva pietosa all'alba di quel 21 gennaio del 1983 ad alleviargli la solitudine.