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"Non è il buono contro il cattivo e fare in modo che vinca il buono. Il senso del calcio è che vinca il migliore in campo, indipendentemente dalla storia, dal prestigio e dal budget."

Johan Cruijff

lunedì 27 gennaio 2014

Fattore Ricordo


Oggi, il 27 gennaio, ricordiamo una delle pagine più buie della Storia umana. Io, a mio modo, vorrei provare a ricordare questo fatto tramite Arpad Weisz, nome sconosciuto ai più ma, che negli archivi e nei trofei, scintilla indelebilmente.
TRATTO DA STORIE DI CALCIOhttp://www.storiedicalcio.altervista.org/weisz_scudetto_auschwitz.html



 E' un libro che commuove ed indigna, che va letto tutto d'un fiato, tanto è affascinante il personaggio di Weisz. Finalmente 60 anni dopo la sua morte un giornalista del calcio moderno gli renderà il posto e il merito che gli spetta nella Storia del calcio.
Ecco un'appassionata recensione di Gianni Mura:
MATTEO MARANI- Dallo scudetto ad Auschwitz
Non lo sapeva nemmeno Enzo Biagi, bolognese e tifoso del Bologna. «Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito», ha scritto in "Novant'anni di emozioni". E' finito ad Auschwitz, è morto la mattina del 31 gennaio '44. Il 5 ottobre del '42 erano entrati nella camera a gas sua moglie Elena e i suoi figli Roberto e Clara, 12 e 8 anni. Questa è la risposta, documentata, di Matteo Marani, bolognese, laureato in Storia (e questo spiega qualcosa). Gli ci sono voluti tre anni di ricerca, scrupolosa e insieme ossessiva, perché gli pareva di inseguire un fantasma. Ed ora questo libro: "Dallo scudetto ad Auschwitz" (ed. Aliberti), preciso come una banca svizzera, dolente come una cicatrice. Ho idea che Marani abbia sentito le voci nel vento, per dirla con Guccini, bolognese d'adozione. Forse lo ha spinto una coincidenza: abita a meno di 300 metri da dove abitava Weisz. Certamente lo ha sorretto una volontà da detective della memoria. E così dai registri di classe del '38, ritrovati in uno scantinato, è arrivato a conoscere uno degli amici del piccolo Weisz, un amico vero che per tutti questi anni aveva conservato lettere e cartoline che gli arrivavano dalla Francia, dall'Olanda, da dove i Weisz cercavano di sottrarsi ai cacciatori dopo che il Bologna aveva licenziato il suo tecnico in omaggio alle leggi razziali. Arpad Weisz era stato un ottimo giocatore, ala sinistra. Nell'Olimpica ungherese del '24 fa coppia con Hirzer, la Gazzella, che sarebbe stato il primo straniero alla corte degli Agnelli. Gioca nel Padova (poco), nell'Inter ma un infortunio serio lo porta sulla panchina nerazzurra come tecnico. È lui a lanciare in prima squadra Peppino Meazza, a 17 anni, lui ad allenarlo individualmente, al muro, perché abbia la stessa padronanza dei due piedi, è lui a vincere lo scudetto del '30, sempre lui a scrivere, a quattro mani col dirigente Aldo Molinari, il manuale "Il giuoco del calcio", con prefazione di Vittorio Pozzo che non era l'ultimo arrivato. Ancora lui a importare in Italia il sistema di Chapman, a sperimentare i ritiri (in località termali), ad allenarsi in braghe corte insieme ai giocatori, quando le foto di Carcano (famoso quinquennio juventino) lo mostrano in giacca e cravatta. Gli allenamenti si dirigevano, non si facevano. "Il mago" lo chiama "Calcio illustrato".
Col Bologna «che tremare il mondo fa» vince due scudetti consecutivi. È il tempo di Schiavio, di Monzeglio che insegna il tennis ai figli di Mussolini, dell'uruguagio Sansone che sposa la cassiera del bar Centrale, di Fedullo, di Fiorini detto il Conte Spazzola che muore nel '44 sotto una raffica dei partigiani, e ancora di Ceresoli, di Biavati che esegue il doppio passo e poi crossa al bacio per Puricelli detto Testina d' oro. Al Littoriale Weisz chiede un'equipe fissa di giardinieri per il prato, un laboratorio medico-dietetico. Nella finale del Trofeo dell' Esposizione, a Parigi, il Bologna batte 4-1 i maestri del Chelsea.
Ma il cerchio intanto si stringe intorno a una famiglia felice. Il figlio non può iscriversi a scuola. Il padre non può allenare. Il Bologna lo licenzia a fine ottobre del '38, dopo un 2-0 alla Lazio. Al suo posto l'austriaco Felsner. La famiglia Weisz lascia Bologna in treno, direzione Parigi. La speranza è di trovare un lavoro. Tre mesi trascorsi in albergo indeboliscono le finanze e non danno risultati. Si punta sull'Olanda, Dordrecht. Città piccola, squadra semidilettantistica, ma con Weisz in panchina batterà più d'una volta il grande Feyenoord. Ma anche in Olanda, paese con un tasso altissimo di collaborazionismo, si stringe il cerchio .L'ultimo messaggio dei Weisz è una cartolina di auguri di Natale spedita a Bologna il 12 dicembre '40. Nel settembre del '41 i nazisti stabiliscono che agli ebrei è vietato frequentare lo stadio, ma anche andare a scuola, salire sui mezzi pubblici, entrare in bar, ristoranti e negozi. I Weisz tirano avanti grazie agli aiuti, di nascosto, del presidente del Dordrecht. Naturalmente, Marani è andato a Dordrecht e ha trovato uno dei giocatori ancora vivo. Non in grande salute, ma felice di parlare di Weisz. «Lo chiamavamo Sir. Fantastiche le sue lezioni di tattica». Senza vie d'uscita, la stella gialla già impressa su un cappotto liso (questa per me l'immagine più triste di un libro bellissimo che allegro non può essere), l'ebreo Weisz spia la sua ex squadra dalla fessure nella staccionata di legno.
Le SS arrestano la famiglia il 7 agosto '42 e la prelevano dal campo di Westerbork, lo stesso per cui passerà Anna Frank, all'alba del 2 ottobre. Sul treno che li porta verso i lager gli ebrei pagano il biglietto. Weisz viene dirottato su Cosel, campo di lavoro in Alta Slesia. Ha un fisico da atleta, può ancora servire. Per il resto della famiglia, Zyklon B. Poi sarà Auschwitz anche per lui. La media di vita nei campi era di 4 mesi, Weisz ne regge 16. Lo trovano morto la mattina del 31 gennaio '44: di freddo, di fame, di solitudine, di disperazione. Non aveva mai saputo della famiglia, lo aveva solo immaginato. E forse nemmeno Marani, nel suo viaggio a ritroso, pensava di raccontare una storia così profonda e tragica, dando un corpo ai fantasmi e voce, almeno un po' di voce, ai morti.

giovedì 16 gennaio 2014

Fattore Ripartenza

Il Milan ha deciso di ripartire, ripartire da un suo grande ex, Clarence Seedorf. Una scelta azzardata, senz'altro. "Troppo acerbo, troppo inesperto" ha sentenziato Capello. Penso che abbia ragione; non si possono attendere miracoli da un neo-patentato senza alcuna gavetta alle spalle. Ci provò la Juventus con Ferrara, si è visto come è andata a finire. Ci ha provato la Roma con Luis Enrique, si è visto come è andata a finire. Ci ha anche provato il Chealsea con Villas Boas... insomma abbiamo capito. Non sarà semplice, ma almeno i rossoneri avranno la possibilità di cambiare le carte in tavola. Barbara Berlusconi ha già fatto notare gli sprechi che limitano la possibilità di spesa. Una buona osservazione, ma deve essere trattata con le molle. Diminuire il debito è da sempre una cosa problematica, bisogna capire bene cosa tagliare, a partire proprio dai giocatori. Si possono prendere come riferimento la Juventus contiana e la Roma garciana. Pochi investimenti, ma fatti con giudizio, come Pirlo e Vidal, come Benatia e Strootman. E attorno a questi investimenti farci girare attorno la squadra. Non servono a niente giocatori mediocri e/o a mezzo servizio.
Seedorf, aldilà della situazione-spogliatoio, dovrà fare chiarezza sugli obiettivi. Io credo che quest'anno non si possa fare altro che concludere il campionato in maniera dignitosa. Ci saranno i primi botti, quelli di apertura, spero di assistere anche a quelli di chiusura. Un gran finale ammazzerebbe un pò la noia.

sabato 11 gennaio 2014

Fattore Continuità

L'Inter sta attraversando una fase di stallo. Il cambio di presidente, di allenatore e di alcuni giocatori ne sono le cause. La mancanza di contnuità è all'ordine del giorno. Xavi ha ragione: delle squadre di Mourinho rimane solo il nome, nè il gioco, nè i giocatori.
Di Erik Thohir avevo detto che si sarebbe portato dietro tanti soldi quanti dubbi. I soldi, se non vogliamo guardare con l'occhio del tifoso, troppo distratto dal mercato, li ha già tirati fuori: non so quanti avrebbero messo sul tavolo i milioni per acquisire il 70% della società. Però stanno venendo fuori anche i dubbi. Per carità, la sua carica è appena iniziata e ci vuole tempo per abituarsi alla nostra mentalità, ma la sensazione è che Thohir non abbia compreso fino a fondo l'essenza del nostro calcio e dell'Inter. La Serie A non nè Major League Soccer (il "soccer" spiega molto...), nè NBA. E l'Internazionale non è una squadra facile da gestire, anzi una delle più difficili.
Manca un uomo di riferimento, un portavoce. Quello che è Galliani per il Milan, Marotta per la Juve e Sabatini per la Roma. Mazzarri è un buon allenatore, ma non può gestire anche le cose fuori dallo spogliatoio. Il suo atteggiamento è un pò il suo limite. Usare la "carota" con i giocatori e il "bastone" con gli arbitri, serve a niente. Questa tattica "mourinhana" paga fino a un certo punto.
La rosa sicuramente non è competitiva per grandi traguardi, ma è sicuramente superiore al Verona e se la può giocare anche con l'attuale Fiorentina. Se è vero che è stato deciso un tetto-ingaggi, bisogna puntare su giocatori discreti, mediocri e sperare in un lavoro di Mazzarri simile a quello operato a Napoli, dove i vari Gargano, Campagnaro e Maggio, probabilmente hanno raggiunto l'apice della propria carriera.
Ai tifosi dico di avere pazienza, proprio come l'ebbero i bianconeri prima e i romanisti dopo.

lunedì 6 gennaio 2014

Fattore Leggenda #3

TRATTO DAL BLOG "STORIE DI CALCIO"
http://storiedicalcio.altervista.org/





EUSEBIO
la pantera nera

Venne dal Mozambico e negli  anni 60 fece grande il Benfica e la nazionale. Scudetti, Coppe dei Campioni, Pallone e Scarpa d'Oro nel suo Palmares.

Era pigro e sonnolento il Portogallo, in quel finire degli anni Cinquanta, sotto la cappa vischiosa della lunga dittatura di Salazar che più che reprimere addormentava le coscienze in un tran tran quotidiano meschino come il suo conducator fatto, per i più, di ignoranza,
religione, scarso reddito. E delle manie di grandezza sanguinose e un po' ridicole che lo tenevano abbarbicato alle sue colonie africane, la Guinea e il Mozambico, ultime vestigia di un impero che un tempo aveva dominato l'Africa, l'Asia e il Sudamerica.
Il piccolo Portogallo degli incombenti anni Sessanta si attaccava coi denti a quei brandelli africani, fronteg-giando una scarsa resistenza, che allora era solo agli albori, e perseguendo la pietosa bugia di una difficile integrazione, trapiantando nelle colonie religione, cultura, usi e costumi. E il fùtbol. L'unico campo in cui quel simulacro di integrazione funzionava davvero. I ragazzini negri o meticci copiavano il calcio dai colonizzatori e lo giocavano a piedi nudi nelle strade polverose o sulle spiagge della grande isola. E i talent scouts venuti dal continente dirottavano i più dotati verso i locali clubs calcistici che erano poi le succursali delle grandi squadre lusitane, pronte ad accogliere i migliori.
E girarli poi magari alla Nazionale. Quella portoghese naturalmente, perché nell'ideologia corrente le colonie erano solo territori d'oltre mare, e gli abitanti cittadini europei, portoghesi in questo caso. Come detto, un sistema che funzionava. Per i più fortunati almeno.
Con Eusebio funzionò a meraviglia. Era nato a Lourenco Marques (oggi Maputo), sulle rive dell'Oceano Indiano, ultimo di otto figli, orfano di padre a cinque anni, cresciuto nella dura povertà che la madre poteva loro offrire. Il pallone lo calciava per strada, a piedi nudi per necessità, finché non entrò nello Sporting di Lourenco Marques, affiliato allo Sporting Club di Lisbona, che dunque lo considerava suo. Ma il Benfica lo sottrasse agli storici rivali con un colpo di mano pirata. Così a sedici anni Eusebio trasferì la sua vita nella Lisbona sonnolenta e un po' magica raccontata da Pessoa e dal talento nuovo di José Saramago, e cantata, con la triste nostalgia del fado, dalla voce giovane di Amalia Rodriguez, nei locali fumosi e umanissimi della città vecchia, lungo le stradine tortuose che salgono e scendono su per i quattro colli lungo i quali la città si snoda affacciata sull'Atlantico.
Il giovane mozambicano non ebbe problemi di integrazione, ne calcistici né umani. Quella
che era una finzione politica per lui era, e sempre più divenne una naturale realtà. Eusebio da Silva Ferreira era un giocatore del Benfica, cittadino portoghese, speranza fulgida di una nazionale che si affacciava per la prima volta alle grandi ribalte.Lo chiamavano "la pantera nera". E ci fu un tempo in cui la "pantera" prese il posto della "perla nera" sul trono precario del football. Era il tempo dei mondiali d'Inghilterra. Un piovoso luglio del 1966. E nel Goodison Park di Liverpool l'abdicazione avvenne in diretta intercontinentale e assunse l'iconografia plastica di Pelé in ginocchio, malamente ferito da un intervento assassino e lui, Eusebio, che si avvicina e, chinandosi, gli pone sul capo la mano in un gesto che offre conforto e silenziosamente chiede scusa per l'intervento duro del compagno. E' la fine del terzo mondiale di Pelé, la fine del Brasile sconfitto 3-1 da un Portogallo alla sua prima esperienza in una fase finale di Campionato del mondo. Un Portogallo che passa di vittoria in vittoria grazie ai gol a ripetizione del suo negretto timido che stupisce il mondo per la velocità delle sue trame e la sicurezza e la pericolosità delle sue manovre d'attacco.
L'incoronazione del nuovo sovrano avviene qualche giorno dopo, il 23 luglio, in una notte di gloria e miseria. Perché in quella sera d'estate, nello stadio della patria dei Beatles solo il talento e la grinta di Eusebio trasformarono in trionfo il disastro, e dissolsero l'incubo giallo della Corea che, dopo aver inflitto all'Italia la sconfìtta più umiliante della sua storia, stava sommergendo 3-0 gli increduli lusitani. Poi avvenne il miracolo. Partendo dalla destra o dalla sinistra, retrocedendo fin sotto la propria porta a cercare il pallone, con la fretta disperata che lo svantaggio impone, Eusebio si lancia in avanti con quella sua progressione morbida, felina, che gli ha guadagnato l'appellativo di "pantera", infila in velocità uno, due, tre avversari e poi lascia partire il tiro che ha secco, potente, preciso. Segna quattro volte, su azione e su rigore; e offre a un compagno la palla del quinto gol.
Alla folla piace chi segna, e il clamore del mondiale amplifica le gesta degli eroi della pedata, così il giovane mozambicano che «vibra por los goles», che «non ama discutere di tattiche, di posizioni, di piani per la battaglia», perché «a giocare e a segnare si diverte», viene di colpo considerato da tutti come più bravo di Pelé, più completo di lui, in possesso di un repertorio di gioco superiore, di più ampio respiro. Gli entusiasmi di un giorno illuminato dalla grazia e dal talento? Certamente. E infatti Pelé riprenderà presto il suo trono nell'immaginario collettivo. Ed Eusebio, che proseguirà con la maglia del Benfica, la sua squadra di sempre, una carriera ricca di successi, ancora non lo sa ma ha raggiunto quella sera, nello stadio di Liverpool, il momento più alto della sua parabola di calciatore.
Aveva solo 24 anni, cinque anni di professionismo alle spalle, qualche scudetto e due Coppe dei Campioni strappate entrambe, nel 1961 e 1962, al Real Madrid di Puskas e Di Stefano, il primo stop al dominio continentale dello squadrone di Santiago Bernabeu. E se la prima volta lui era solo una riserva in panchina, giovane diciannovenne di belle speranze che aveva esordito in prima squadra solo otto giorni prima, il 23 maggio 1961, segnando tre gol all'Atletico di Lisbona, la seconda Coppa portava largamente la sua impronta. Era stata una dura battaglia, sul filo dell'equilibrio. Poi, mentre gli assi madridisti si spegnevano lentamente sotto il peso della fatica moltiplicata dagli anni, la stella del giovane Eusebio brillava nel cielo di Amsterdam, quel 2 maggio 1962, segnando, in finale di partita, i due gol che fissavano il punteggio su 5-3 e regalavano al Benfica la seconda Coppa dei Campioni. Altre due le aveva perse, nel '63 e nel '65, in finale contro il Milan di Altafini e Rivera e contro l'Inter di Herrera.
Perché Eusebio da Silva Ferreira è stato campione in un'epoca di campioni, ha sfiorato l'ultimo splendore dei Di Stefano, Gento, Puskas, Santamaria, ha giostrato nell'epoca dei Garrincha, Altafini, Suarez, Bobby Charlton, Beckenbauer, Rivera, Pelé, coetaneo di Zoff, Facchetti e Mazzola. Tutti quelli che, a suo dire, mancano al calcio attuale. E lamenta quella penuria che «al giorno d'oggi porta i tecnici a privilegiare il collettivo e il risultato». Lui, l'uomo che ha conquistato 11 scudetti, 5 Coppe del Portogallo, le suddette Coppe dei Campioni, 7 volte capocannoniere portoghese, Pallone d'oro nel 1965, Scarpa d'oro mondiale 1966, capocannoniere ai mondiali d'Inghilterra con 9 gol, 313 reti in 291 gare con il Benfica (una media di 1,08 a partita), 64 presenze in Nazionale e 41 gol (record portoghese), che appese le scarpe al chiodo nel 1975 per poi riprenderle e concedersi due anni di esperienza americana, prima di tornare a Lisbona entrando con mansioni varie nello staff tecnico del Benfica, dice di non vivere di ricordi, «perché questo non aiuta ad andare avanti, e i paragoni con me e i miei tempi non hanno senso».
Non si considera sorpassato né mummificato. Un tempo sognava l'Italia, dice, e aveva firmato con Moratti un contratto che la chiusura delle frontiere decisa dalla federazione italiana dopo il disastro coreano rese vano (sempre la Corea sul suo cammino!), ha tifato Danimarca ai mondiali messicani del 1986, ammirato la Dinamo Kiev e il suo calcio da laboratorio, e professa illimitata ammirazione per Arrigo Sacchi «il migliore di tutti, un uomo nato per vincere». Gli schemi scientifici non c'entrano. E' questione di personalità, «io questa gente la riconosco, appartengo alla stessa famiglia», e senti vibrare nelle parole l'orgoglio ingenuo della "pantera" che sfidava "O' rei". Perché ha un bell'aggiornarsi, ma dentro vive la
convinzione profonda che «il calcio è sempre quello, e da che mondo è mondo lo fanno i calciatori. Uno come Pelé farebbe nel duemila quello che ha fatto fino al '70, Idem Di Stefano, che per me resta il più grande, il più completo».
E lui, Eusebio da Silva Ferreira, il ragazzino venuto dalla salsedine dell'Oceano Indiano, sarebbe ancora Eusebio, l'artista che illuminava, con il suo talento, l'atmosfera sonnolenta e un po' bigotta della Lisbona di Salazar.La dittatura ora non c'è più, spazzata via negli anni "70 dalla "rivoluzione dei garofani", quando i giovani ufficiali, molti provenienti dal Mozambico, misero fiori nei loro fucili suscitando quel crogiolo di entusiasmi e di speranze che ogni rivolta ideale porta con sé. Il Mozambico riacquistava l'indipendenza e si avviava alla costruzione di un incerto futuro, i legami con il nuovo Portogallo per nulla spezzati, troppo fitto l'intreccio di interessi economici culturali che la decolonizzazione si lascia dietro.

Eusebio, scelse di restare nella sua patria di adozione, senza suscitare riprovazione né scandalo. Perché lui è il Benfica. E la nazionale portoghese ha ancora bisogno di lui. E intanto si gode i complimenti del Capo dello Stato e le parole di Amalia Rodriguez, che rimpiange i suoi balzi felini e il suo talento. E la Lisbona che non è più, affogata dalla violenza nuova della modernità e da una povertà antica che sembrano aver sostituito la
dittatura scomparsa e affogato le illusioni generose di una fugace primavera. Anche la saudade ha perso spessore, e Saramago è partito, sdegnato, in volontario esilio.Eusebio intanto studia con coscienza e umiltà le nuove frontiere del fùtbol, poi entra la domenica allo stadio del Benfica per farsi applaudire sulle note del fado dalla massa di tifosi che vive di ricordi e di sentito dire, e con loro insegue sull'erba le immagini antiche di un calcio bailado che hanno la consistenza labile e il sapore acre della nostalgia...

Grazie Leggenda.