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"Non è il buono contro il cattivo e fare in modo che vinca il buono. Il senso del calcio è che vinca il migliore in campo, indipendentemente dalla storia, dal prestigio e dal budget."

Johan Cruijff

giovedì 17 luglio 2014

Fattore Cambiamento

In Serie A tira aria di cambiamento. Nel 2013 cambiarono Napoli, Inter e Roma, adesso, anche Milan (seconda volta in realtà) e Juventus. Inzaghi sulla panchina rossonera, Allegri su quella bianconera.
Parto dal primo. Inzaghi ha una gloriosa storia alle spalle, sul campo più un killer che un calciatore. Nasce e cresce sulla linea del fuorigioco, trionfa con goal "di rapina". Arriva sulla scottante panchina, lasciata, non senza strascichi, da Seedorf, mai andato troppo a genio nè alla società, nè ai calciatori. Alcune testimonianze narrano di particolari diete e regole dell'olandese, che hanno sancito la sua partenza. Inzaghi, non sarebbe di meno a quanto pare, ma serviva un testa da impalare e l'hanno trovata in Seedorf. Ma tant'è, questo è (anche) il calcio.
Inzaghi, da parte sua, si porta dietro inoltre la nomea di "spia" di Berlusconi in rossonero e dei giornalisti in Nazionale. Un fedele della dirigenza, mai una parola fuori posto, sempre tra le righe (non soltanto quelle del fuorigioco). Con il suo approdo, si spera in una ventata di aria pulita, in una nuova generazione di giocatori. A riguardo nutro qualche perplessità, ma ammetto di essere alquanto incuriosito dalla tattica e dai tatticismi che adotterà, in particolare, quelli riguardanti la zona offensiva.
Spostandoci un pò più ad Ovest, nel tranquillo Piemonte, è scoppiato il caos. Nel giro di ventiquattro ore scarse, si è passati da Antonio Conte, simbolo del triplo trionfo italiano, a Massimiliano Allegri, totem dei travagliati ultimi anni milanisti.
Si sono tramandate tante voci, dal mercato all'ambiente societario. Voci simili, ma contrastanti. I tifosi si sono visti colpiti alle spalle e tutt'ora non sanno se dalla dirigenza o dal loro "condottiero" (Agnelli dixit). Non credo che emergeranno altri particolari, quindi provo ad analizzare la situazione senza troppe trame complottistiche. Conte aveva più volte rivelato il proprio scetticismo riguardo alla stagione ventura. O si cambia o me ne vado. Sono partiti Vucinic, Quagliarella, Peluso, metà Zaza e metà Immobile, sono arrivati (a meno di colpi di scena stile Iturbe) Morata e Evra, più Marrone e il giovanissimo Coman.
La società una volta liquidato Conte, probabilmente troppo "pretenzioso", la Juventus ha virato senza tanti ripensamenti su Allegri. Si è evitata un'altra figura importante come Mancini (pare ben voluto da Nedved).
Il tenico livornese non si è distinto particolarmente per il bel gioco, ma per la  gestione dei fuoriclasse nello spogliatoio. Non fu il solo artefice del crollo milanista che culminò con la sconfitta con il Sassuolo, ma anche in quel caso serviva un capro espiatorio. Credo che troverà un ambiente più incline alle sue caratteristiche, ma anche scettico e che non lascia molte possibilità. In questo Agnelli ha ereditato molto dalla propria famiglia.
Vento nuovo in Serie A, che alla luce del quattordicesimo posto dell'Italia nel ranking FIFA, può portare qualche buona boccata d'aria.

lunedì 14 luglio 2014

Fattore Superiorità

Che io rammenti, è molto raro che una squadra resti la favorita in tutto l'arco del Mondiale. E' successo quest'anno, è capitato alla Germania. Neanche le titubanti prestazioni con Algeria e Francia avevano fomentato dei dubbi. Loew prosegue il percorso inziato con Klinsmann, ma spingendosi ben oltre. Il suo mentore si era dovuto scontrare con il peggiore dei loro avversari l'Italia, nel 2006.
La Germania contro l' Argentina. Il gruppo contro le individualità, un coro contro undici solisti. La formazione tedesca è sicuramente quella più all'avanguardia. Ricchezza di centrocampisti, un tempo offensivi, ora relegati a pulire i panni sporchi (Kroos e Schweinsteiger) e un solo attaccante puro, Klose (con record di goal mondiali), più uno acquisito, Muller (capocannoniere).
Ieri sera ha deciso Goetze, il talento più cristallino. Stop di petto e tiro al volo su cross di Schurrle. Una nuova generazione di fuoriclasse, partita dai vivai tedeschi e giunta in capo al mondo. La prestazione della Germania durante tutto il Mondiale è stata una netta dimostrazione di superiorità.
Dall'altra parte, invece, grandi lottatori, quasi commuoventi. Mascherano, Zabaleta e Demichelis hanno dimostrato una dedizione fuori dal comune. Il primo, soprattutto e sopra tutti, per me, è stato il migliore giocatore del torneo. Chi ha deluso, invece, è stato lui, il campione più atteso, Lionel Messi. Ci ha provato, con rapidi dribbling e tocchi deliziosi. Ma niente più; forse sarebbe anche giusto risparmiargli il paragone con Maradona. Messi non è in grado di caricarsi una squadra, una nazione sulle spalle. Di Pibe de Oro ce n'è solo uno e rimane lontano, sull'Olimpo del Calcio. Oltretutto Messi non è mai stato, a differenza di Maradona, costretto a fare la partita da solo, ma piuttosto un terminale infallibile di un grande gruppo che aveva alle spalle come il Barcellona di Guardiola, era (ed è tutt'ora) una ciliegina sulla torta, più che la torta intera.
Il mio podio fu: Argentina, Germania, Brasile e Belgio. Non ne ho azzaccata neanche una: Germania, Argentina, Olanda e Brasile. Faccio come i verdeoro, inizio a pensare a Russia 2018, che è meglio..
Hanno vinto i migliori e ahinoi, non solo ci hanno raggiunti, ma sotto tanti punti di vista, tocca a noi inseguire.

mercoledì 9 luglio 2014

Fattore Massacro

No, non c'è stato bisogno di un altro Maracanazo. All'epoca furono Schiaffino e Ghiggia a sancire la più clamorosa sconfitta della Selecao. Fu in terra madre e ci furono più di cento suicidi in tutto il Paese.
Ieri sera sono stati sette ad aggiornare la Storia. Mueller, Klose, Kroos, Kroos, Khedira, Schuerrle, Schuerrle. Un vero e proprio massacro calcistico. Bisogna, però, paradossalmente, ringraziare i tedeschi per aver continuato a giocare, piuttosto che cimentarsi con irrisori passaggi di nostra spagnola memoria.
Scolari e il suo Brasile sono state vittime di sé stesse, della medesima pressione che facevano finta di saper reggere. La formazione è stata sbagliata, troppo offensiva e ben poco di sostanza. Affidata com'era alle fiammate individualità di Neymar, non ha saputo che aggrapparsi al gioco di squadra, il più scivoloso dei loro specchi. Certo, le assenze di Thiago Silva e di Neymar hanno pesato, ma non avrebbero comunque potuto evitare una sonora sconfitta contro la corazzata tedesca.
Questa sconfitta sta contribuendo ad attente analisi. Da una parte, una Nazione che fa emigrare i propri giocatori ancora acerbi e dall'altra una Nazionale che tramite profonde e rigide riforme ha conquistato quattro semifinali consecutive. La samba non ha ballato, ma si è stesa, sfinita, a terra.
E da buoni italiani subito ci siamo messi a guardare in casa nostra e ripeterci per l'ennesima volta che dobbiamo semplicemente emulare gli schemi altrui (a livello istituzionale, non a livello tattico, caro Prandelli e il tuo tiki-taka all'italiana). Partendo dai settori giovanili per arrivare alle leggi sul bilancio e passando per lo snellimento della massima Serie (18 squadre).
Vorrei poter criticare, prendendo come esempio il calcio tedesco, il nostro apparato, ma preferisco spendere due parole su Prandelli e le sue dichiarazioni rilasciate ieri, durante la presentazione in Turchia.
Mi sembra di ben poco stile, cosa che credevo di poter apprezzare in lui, le parole nei confronti di Balotelli. Mi chiedo infatti se non sia "leggermente" ipocrita criticarlo dopo aver basato su di lui una squadra, una Nazionale intera. Che non fosse un campione, ci voleva ben poco a capirlo, ma suona in contrasto con le serenate, le paternali e le lodi decantate prima dei Mondiali. Continua imperterrito in questo ruolo da mezzo prete e mezzo inquisitore e personalmente mi ha un pò stancato.
Si difende da chi lo appella "Schettino"; certo è un paragone un pò forte, ma che io sappia Schettino si è tolto dalla notorietà. (vedi articolo di Aldo Grasso: http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_06/fuga-il-bosforo-dell-ex-salvatore-patria-prandelli-61dfc72c-04db-11e4-915b-77c91b2dfa50.shtml)

lunedì 7 luglio 2014

Fattore Leggenda #4

Il mondo piange un'altra leggenda. Stasera se n'è andato Alfredo Di Stefano, stroncato da un infarto. Soprannominato la Saeta Rubia, è da considerarsi tra gli dei dell'Olimpo del pallone. Forse addirittura superiore a Pelè, Maradona e Cruijff. La sua eleganza è ben presto diventata un marchio di distinzione del proprio club, il Real Madrid. Lui e Puskas hanno probabilmente formato la coppia di attaccanti più forte di tutti i tempi.
"La gente discute di Pelé e Maradona. Per me il migliore è stato Di Stefano." affermò un giorno O' Rey Pelé.
 Ecco, di seguito, un articolo tratto da Storie di Calcio su questo straordinario uomo, simbolo del calcio madrileno.

LINK: http://www.storiedicalcio.altervista.org/di_stefano.html

DI STEFANO, MAI NESSUNO COME LUI



DI STEFANO, la «Saeta rubia» («Saetta bionda»), è stato qualcosa di più di un grande campione, e non ci sono schemi dove collocarlo e le prose che lo hanno raccontato sono state in ogni caso inferiori al suo talento, che era qualcosa di eccezionale nella misura in cui era originale.  
I veri assi non si ripetono, i geni anche nel calcio improvvisano con l'eccellenza di un'ispirazione che li fa ringiovanire ogni volta. Possono avere tutti i vizi del mondo ma li sublimano in quegli istanti, in quei minuti, in quelle ore, sia Pablo Casals il violoncellista quasi cieco e quasi sordo che a ottantanni suonava come un dio, sia Paganini il violinista genovese pagàno che metteva nel suo Stradivarius sortilegi e cavava note come tele di ragni e come arcobaleni sanguigni, sia Alfredo Di Stefano appunto di cui tento un profilo.
 Ci hanno provato in tanti magni crani a raccontarlo. Carlos Zeda, scrittore e giornalista madrileno, ha affermato che in lui c'era il compendio delle qualità dell'atleta sognato da Platone. Gioanbrerafucarlo, la cui opera «Coppi e il Diavolo» è un capolavoro di scrittura e di sensibilità a memoria di un giornalismo sportivo che onora la cultura italiana, ha scritto che è stato superiore a Pelè. 1.75 di atleta per 77 chili oscillanti che sul prato verde diventava un gigante con cento occhi e mille piedi, l'espressione fuori da iperbole del calcio eclettico, per cui assolveva al lavoro di tutti i ruoli, sapeva essere difensore incontri sta e attaccante rifinitore, nonché lussuoso elegante leggero e possente centravanti. Si assommavano in Di Stefano effettivamente tutte le doti del calciatore.

Come classe pura era esemplare in quanto eseguiva le cose più difficili con semplicità. Cosi gli arresti ovvero gli stop sulle parabole più astruse, così gli shot per il passaggio come usava solo «Farfallino» Borel, così il colpo di testa secco a seguire in fondo alla rete, così a tempo e luogo il dribbling, quando un compagno andava a liberarsi, ma soprattutto la consapevolezza che in campo non si deve mai sprecare niente, che il pallone deve essere esercitato come un tesoro, subito passato al volo senza perditempo, un passaggio immediato e tempestivo supera in ogni caso l'avversario, lo disorienta. Alfredo Di Stefano era nato a Buenos Aires nel rione di Barracas il 4 giugno 1926. Subito si pensa che un genio come lui poteva nascere soltanto in quella capitale del mondo, in quella città senza confini, dove ogni razza è libera di vivere, dove bianchi e neri, siciliani e turchi, trovano, un angolo, un riparo.

VIVERE NELL'AGIATEZZA                                    
Alfredo nacque nella squadra ragazzi del River Plate. Il suo idolo era Arsenio Erico, centrattacco dell'Independiente, un tipo fosco che non degnava di un saluto nessuno, che veniva a prelevare lo stipendio trovandolo sempre inferiore ai suoi meriti che erano del mas grande mai visto in tutto l'orbe terracqueo. Alfredo quattordicenne ne possedeva tutti gli opuscoli biografici e un mazzo di fotografie, esattamente centodue fotografie di cui sei firmate dal suo idolo. Era andato ad aspettarlo e lo invocava bevendoselo con i suoi occhi chiari di ragazzo innamorato di pallone e di gloria. Il talento di Di Stefano fu subito notato, ma i tecnici non convenivano che potesse riuscire a farsi largo. Nel River Plate giocava un altro fuoriclasse dai piedi magici, ovvero «Il divino» Adolfo Pedernera, che era per natura sospettoso e cominciò in allenamento a fare dei dispetti a quel ragazzo fin troppo ambizioso. Fatto è che il River Plate pensò bene di cederlo in prestito all'Huracan. E Di Stefano andò per dimostrare le sue qualità. Era cresciuto a diciotto anni il suo fisico con il suo gioco. Ormai giocava alla Di Stefano, riempiva il campo da solo, risolveva un sacco di problemi tattici all'allenatore che poteva disporne. Un particolare del carattere di Di Stefano si deve subito precisare, perché sia lampante come il suo stile di calciatore arrivasse già dai grattacieli. I genitori piccolo borghesi non gli avevano mai fatto mancare nulla. E lui voleva vivere nell'agiatezza, voleva avere sempre soldi in tasca e vestire da signore. Quello che sembri sei era il suo motto. Gli piaceva già tutto, a diciotto anni. Mangiare, bere, fare all'amore. Ma senza stancarsi troppo, senza concedere troppo. Per divertire lo spirito.

L'ATTACCO DEI PRODIGI                                       
Nell'Huracan Di Stefano gioca le sue prime eccezionali partite. Il mondo argentino del calcio è in subbuglio. Pedernera il divino accusa i morsi degli anni. Il nuovo allenatore del River Plate, Pepe Monella, accogliendo con entusiasmo l'incarico di guidare la squadra, pone come condizione il recupero del giovane, ora ha
vent'anni, è il 1946, anzi il rientro alla base, di Alfredo Di Stefano. Naturalmente col sacrificio di Pedernera. Viene accontentato. E così il River Plate ha un trio d'attacco dei prodigi Moreno, Di Stefano, Labruna, Chi li può fermare? Chi può fermare Moreno, secondo solo a Di Stefano? Ma chi può fermare soprattutto il genio di Di Stefano? La scuola di Moreno è quella che serve. Moreno è un mezzo matto, in campo ha un suo modo di gestire la professione, di esercitarla. A parte una specie di grido di guerra che lancia «A papà, a papà!», come un richiamo al capofamiglia, come un solleticare le sue più ancestrali ambizioni a farsi ammirare, Moreno è rabbioso e truculento nella lotta, ma furbo, furbissimo. Nessun arbitro gli ha mai visto fare un fallo, ma quanti ne ha azzoppati lui! Accanto a Moreno, Di Stefano svolge la sua parte di orchestratore, ispira e inventa il gioco per tutti, è sempre smarcato a seguire, l'uomo-squadra è lui, di altri, dello stesso Moreno, possono essere certe squisitezze o ghirigori, di Labruna è il tiro di inaudita potenza, ma di Di Stefano è l'arte del comando, la disci- plina tattica. Nel 1947 il River Plate vince lo scudetto e Di Stefano segna ben ventisette gol. I giornali son pieni di lui. Lui è la «Saeta rubia». Ma ora deve andar militare. Ci va mugugnando, perché son tutti quattrini persi e lui vive per i guadagni.

A CACCIA DI DENARO E GLORIA
Al suo biografo ufficiale, Cesar Pasquato di «El Grafico», Di Stefano a fine carriera ha detto: «Per diventare bravi giocatori occorre pensare giorno e notte al pallone. I giovani che vogliono fare solo quattrini senza fatica o svolgere altri mestieri, anche soltanto per distrarsi, mentre giocano da professionisti, sbagliano, perché infallibilmente toglieranno, anche senza accorgersene, tempo prezioso al loro mestiere. Io non sono mai stato molto disciplinato nella vita privata, ho bevuto botti di vino e ho mangiato quintali di pesce fritto, ma tutto questo mi serviva per stordirmi e non pensare ad altro. E dormire. Ma in sostanza io mi sono mortificato in campo in allenamenti durissimi, mentre nei giovani d'oggi c'è la tendenza ad allenarsi poco e a non saper soffrire. Gli allenamenti duri, massacranti, estenuanti, sono indispensabili ad un campione, formano il campione. A me hanno dato l'ossatura. Il campione deve essere ambizioso ogni giorno di più, ogni giorno più ambizioso del giorno prima». 
 Passione per il calcio, sterminata ambizione a titolo personale, creano il mito di Di Stefano. «La Guita», il denaro, è tutto per lui. A un certo punto non gli basta più il River, il denaro che gli danno gli par poco, nel 1950 viene a sapere che la Colombia, il paese sudamericano uscito dalla Federazione Internazionale, c'è la possibilità di guadagnare venti volte di più. Insalutato ospite, sparisce dalla circolazione, si imbarca nottetempo in un aereo e va a giocare in Colombia. Dal '50 al '53, da 24 a 27 anni, gioca nel Millonarios di Bogotà, gol come se piovesse, donne a profusione, piaceri di ogni genere, gloria gloria gloria. E l'eco delle sue gesta raggiunge l'Italia, precisamente la Roma, che nel '53 avrebbe la possibilità di ingaggiarlo. Ma quei nostri furboni di i romanucci, dopo l'ennesima riunione di consiglio, ispirati da un biondo Frascati freddissimo, arronzano che è troppo vecchio, no, no, non vale la spesa...

CON KOPA E GENTO A MADRID
E' nato il Real Madrid di cui Saporita è il genio tecnico organizzativo, riesce a soffiarlo al Barcellona e lo fa suo. Di Stefano parte alla conquista della Spagna, il Paese si può dire della sua vita. La Spagna lo intenerisce e lo appassiona. II Real Madrid gli entra nel sangue. Tocca i vertici funambolici del rendimento. La «Saeta rubia» è più «Saeta» che mai. Con la squadra madrilena di tutte le leggende vince dal '54 al '60 cinque Coppe dei Campioni, percependo ogni anno 39 milioni d'ingaggio e uno stipendio mensile di 500 mila lire. Per acquistarlo, il Real Madrid aveva pagato al River Plate 150 milioni di lire, nove scudetti di Spagna vinti da Di Stefano col suo Real. Dominguez il portiere, Marquitos e Zarraga i terzini ondeggianti, Santisteban, Santamaria e Ruiz la mediana-diga, Kopa il cervello del gol, sette di maglia, Mateos l'interno destro, Di Stefano il perno della strategia, l'uomo-guida, il maestro in campo, guai a sgarrare, predice tutto, insegna col gesto, gioca a testa alta e vede gli errori, Rial mezzo sinistro e ala sinistra Gento il funambolico, il piede di velluto più dolce e melodioso dopo quello di Rinaldo Martino. Nel 1960, quando ha trentaquattro anni, l'anagrafe non conta per lui, Di Stefano è valutato cifre iperboliche. Vale un miliardo di lire, i giornali spagnoli si occupano più di lui che di politica. Diventa famosa una battuta, in Italia, all'arrivo di Del Sol, forte corridore e campione: «Ha portato le valigie a Di Stefano». Qualsiasi campione può portare le valigie ad un asso così.Nel 1963, il 24 agosto, i castro-comunisti lo rapiscono, lo vanno a prelevare nell'albergo in cui dormiva, il Potomac, alle sette del mattino, spacciandosi per ufficiali di polizia del reparto antidroga. Il colpo avrà un eco mondiale. I rapitori dopo 56 ore libereranno Di Stefano senza torcergli un capello. Azione dimostrativa per scuotere il mondo.

UN GENIO
Di Stefano si considera ormai spagnolo e si è naturalizzato da tre anni. Viene a trovarlo da Buenos Aires Cesar Pasquato e Alfredo si sfoga, raccontandogli la sua vita. La Spagna ha saputo tenerselo, ha saputo amarlo. Ci vogliono strepitose tenerezze, ci vuole una sopportazione infinita con i geni. In ogni campo del vivere il genio è uomo scorbutico, duro e tenero, intrattabile e umile. Il biondo Di Stefano che ormai perde i capelli cui tiene tanto, involontariamente ha inventato il calcio totale, il calcio che ha superato i ruoli. Lui è stato un centravanti, ma anche una mezzala, un mediano, un'ala, un terzino. In qualsiasi punto del campo un genio è genio. I gol sono fioccati dal suo piede. In vent'anni di carriera ha infilato la bellezza di 529 gol, in Spagna è stato capocannoniere nel '54, nel '56, nel '57, nel '58 e nel '59. Quando non lo è stato è perché non ne aveva voglia. I suoi gol sono sempre il risultato di eccellenti manovre. Nella nazionale argentina ha giocato 27 volte, e 31 in quella di Spagna. Nel 1957 e nel 1959 «France Football» gli ha assegnato il «Pallone d'oro» come migliore calciatore europeo. Forse il suo sangue misto ne ha agevolato certi estri pungenti, certe ribellioni, certi spunti di rabbia e passione gelavano gli avversari. Fu grandissimo, fu mostruoso. Ne nascerà mai più uno così...?

Grazie Leggenda.

 

domenica 6 luglio 2014

Fattore Romanticismo

Sono stati giocati dei quarti non spettacolose. Pochi goal segnati, penuria di supremazia. Ma c'è stato, d'altro canto, qualcosa di ormai perduto, che ai giorni nostri si può trovare in qualche squadra o nelle sempreverdi bandiere, uomini che giurano fedeltà alla propria casacca: il romanticismo. Partiamo da Francia-Germania. Partita avara di spettacolo e dettata più che altro da un forte orgoglio nazionalistico tra due paesi storicamente nemici sui campi di battaglia (e di gioco). Vittoria striminzita dei tedeschi per 1-0, capocciata di Hummels. Passiamo a Brasile-Colombia. Più che una partita di calcio, una guerriglia tra sudamericani. Da una parte Neymar, dall'altra James Rodriguez. Tanta classe, un pò fine a sè stessa. Finiscono entrambi in lacrime; uno per un fallo di Zuniga nella zona lombare, l'altro per l'eliminzaione dal torneo. La Colombia trascinata dal suo capitano, Yepes, ha dato filo da torcere ai padroni di casa. A risolvere le cose sono stati Thiago Silva, un goal piuttosto fortunoso, e David Silva, con una punizione da una trentina di metri. Ammetto che è stata efficace, ma un tiro con il piattone non si può proprio vedere. Ecco dunque Argentina-Belgio. L'Albiceleste si dimostra un buon gruppo a livello individuale. I meccanismi non sempre girano alla perfezione, ma il ritmo è dettato da Lionel Messi e le sue giocate, mica quisquiglie. Fortunata sul goal, sventurata con l'infortunio di Di Maria, il cui sinistro è sempre un belvedere. Forse hanno trovato un desaparecido: Gonzalo Higuain, trasformato da "spillo" a "pugnale" dopo la rete messa a segno. Gli argentini rimangono i miei personali favoriti per alzare la Coppa. Infine Olanda-Costa Rica. Da una parte chi era già stato dato per morto e sepolto, dall'altra chi, da vittima sacrificale, è diventata la Cenerentola centroamericana dei Mondiali. Pali e traverse, attacchi e ripartenze, assedi e catenacci. Alla fine ha trionfato lui, Louis Van Gaal. Ha rivoluzionato l'intero calcio olandese. Si è liberato del caro 4-3-3 per abbracciare la difesa a tre, inventandosi il 34enne Kuyt tornante e terzino a seconda dei casi. E poi la scelta più importante, fuori Cillessen e dentro Krul (che personalmente terrei titolare). Si tratta di una di quelle decisioni che possono fare solo i Maestri con la "emme" maiuscola. Mi riporta alla memoria la scelta di Lippi per il quinto rigorista in quel di Berlino: Grosso. Lui segnò e ci fece perdere la voce dalle urla. Krul ha parato due rigori e spinto gli Oranje verso l'Argentina.

Confesso che mi aspettavo qualcosa di più dal Belgio. Ma insieme alla Colombia, non ha di certo tradito le (mie) aspettative. Lo considero, personalmente, un altro piccolo pronostico azzeccato. Saranno due semifinali da non perdere. La spada tedesca contro la samba brasiliana, il fioretto olandese contro il tango argentino. Muller contro David Luiz, Robben contro Messi. Ah romanticismo, quanto mi sei mancato..