"La gente discute di Pelé e Maradona. Per me il migliore è stato Di Stefano." affermò un giorno O' Rey Pelé.
Ecco, di seguito, un articolo tratto da Storie di Calcio su questo straordinario uomo, simbolo del calcio madrileno.
LINK: http://www.storiedicalcio.altervista.org/di_stefano.html
DI STEFANO, MAI NESSUNO COME LUI
DI STEFANO, la «Saeta rubia» («Saetta bionda»), è stato qualcosa di più di un grande
campione, e non
ci sono schemi dove collocarlo e le prose che lo hanno raccontato sono state in
ogni caso inferiori
al suo talento, che era qualcosa di eccezionale nella misura in cui era
originale.
I veri assi non si ripetono, i geni anche nel
calcio improvvisano con l'eccellenza di un'ispirazione che li fa ringiovanire
ogni volta. Possono avere tutti i vizi del mondo ma li sublimano in quegli
istanti, in quei
minuti, in quelle ore, sia Pablo Casals il violoncellista quasi cieco e quasi
sordo che a ottantanni suonava
come un dio, sia Paganini il violinista genovese pagàno che metteva nel suo
Stradivarius sortilegi
e cavava note come tele di ragni e come arcobaleni sanguigni, sia Alfredo Di
Stefano appunto
di cui tento un profilo.
Ci hanno provato in tanti magni crani a raccontarlo.
Carlos Zeda, scrittore e giornalista madrileno, ha affermato
che in lui c'era il compendio delle qualità dell'atleta sognato da Platone. Gioanbrerafucarlo, la cui opera «Coppi e il Diavolo» è un
capolavoro di scrittura e di sensibilità a memoria
di un giornalismo sportivo che onora la cultura italiana, ha scritto che è stato superiore a Pelè. 1.75 di atleta per 77 chili oscillanti che sul prato
verde diventava un gigante con cento occhi e mille
piedi, l'espressione fuori da iperbole del calcio eclettico, per cui assolveva
al lavoro di tutti i ruoli,
sapeva essere difensore incontri sta e attaccante rifinitore, nonché lussuoso
elegante leggero e possente
centravanti. Si assommavano in Di
Stefano effettivamente tutte le doti del calciatore.
Come classe pura era esemplare in quanto eseguiva
le cose più difficili con semplicità. Cosi gli arresti
ovvero gli stop sulle parabole più astruse, così
gli shot per il passaggio come usava solo «Farfallino»
Borel, così il colpo di testa
secco a seguire
in fondo alla rete, così a tempo e luogo il dribbling,
quando un compagno andava a liberarsi, ma
soprattutto la consapevolezza che in campo non si
deve mai sprecare niente, che il
pallone deve essere esercitato come un tesoro, subito passato al
volo senza perditempo, un passaggio immediato e
tempestivo supera in ogni caso l'avversario, lo disorienta.
Alfredo Di Stefano era nato a Buenos Aires nel rione
di Barracas il 4 giugno 1926. Subito si pensa che
un genio come lui poteva nascere soltanto in quella
capitale del mondo, in quella città senza confini,
dove ogni razza è libera di vivere, dove bianchi
e neri, siciliani e turchi, trovano, un angolo, un
riparo.
VIVERE NELL'AGIATEZZA
Alfredo
nacque nella squadra ragazzi del River
Plate. Il suo idolo era Arsenio
Erico, centrattacco dell'Independiente,
un tipo fosco che non degnava di un saluto nessuno, che veniva a prelevare lo stipendio
trovandolo sempre inferiore ai suoi meriti che erano del mas grande mai visto
in tutto l'orbe
terracqueo. Alfredo quattordicenne ne possedeva tutti gli opuscoli biografici e
un mazzo di fotografie,
esattamente centodue fotografie di cui sei firmate dal suo idolo. Era andato ad
aspettarlo e
lo invocava bevendoselo con i suoi occhi chiari di ragazzo innamorato di pallone e di gloria. Il talento
di Di Stefano fu subito notato, ma i tecnici non convenivano che potesse
riuscire a farsi largo. Nel
River Plate giocava un altro fuoriclasse dai piedi magici, ovvero «Il divino» Adolfo Pedernera, che era
per natura sospettoso e cominciò in allenamento a fare dei dispetti a quel
ragazzo fin troppo ambizioso.
Fatto è che il River Plate pensò bene di cederlo in prestito all'Huracan. E Di Stefano andò per
dimostrare le sue qualità. Era cresciuto a diciotto anni il suo fisico con il
suo gioco. Ormai giocava alla Di Stefano, riempiva il campo da
solo, risolveva un sacco di problemi tattici all'allenatore
che poteva disporne. Un particolare del carattere di Di Stefano si deve subito
precisare, perché
sia lampante come il suo stile di calciatore arrivasse già dai grattacieli. I
genitori piccolo borghesi
non gli avevano mai fatto mancare nulla. E lui voleva vivere nell'agiatezza,
voleva avere sempre
soldi in tasca e vestire da signore. Quello
che sembri sei era il suo motto. Gli piaceva già tutto,
a diciotto anni. Mangiare, bere, fare all'amore. Ma senza stancarsi troppo,
senza concedere troppo.
Per divertire lo spirito.
L'ATTACCO DEI PRODIGI
Nell'Huracan
Di Stefano gioca le sue prime eccezionali partite. Il mondo argentino del calcio
è in subbuglio. Pedernera il
divino accusa i morsi
degli anni. Il nuovo allenatore del River Plate,
Pepe Monella, accogliendo con entusiasmo l'incarico
di guidare la squadra, pone come condizione
il recupero del giovane, ora ha
vent'anni,
è il 1946, anzi il rientro alla base, di Alfredo
Di Stefano. Naturalmente col sacrificio
di Pedernera. Viene accontentato. E così il River Plate
ha un trio d'attacco dei prodigi Moreno,
Di Stefano, Labruna, Chi li può fermare? Chi può fermare
Moreno, secondo solo a Di Stefano? Ma
chi può fermare soprattutto il genio di Di Stefano? La scuola di Moreno è
quella che serve. Moreno
è un mezzo matto, in campo ha un
suo modo di gestire la professione, di esercitarla. A
parte una specie di grido di guerra che lancia «A papà, a papà!», come un
richiamo al capofamiglia,
come un solleticare le sue più ancestrali ambizioni a farsi ammirare, Moreno è rabbioso
e truculento nella lotta, ma furbo, furbissimo. Nessun arbitro gli ha mai visto
fare un fallo, ma
quanti ne ha azzoppati lui! Accanto a Moreno,
Di Stefano svolge la sua parte di orchestratore,
ispira
e inventa il gioco per tutti, è sempre smarcato a seguire, l'uomo-squadra è
lui, di altri, dello stesso
Moreno, possono essere certe
squisitezze o ghirigori, di Labruna è il tiro di inaudita potenza, ma
di Di Stefano è l'arte del comando, la disci- plina tattica. Nel 1947 il River Plate vince lo scudetto e Di Stefano segna ben ventisette gol.
I giornali son pieni di lui. Lui è la «Saeta rubia». Ma ora
deve andar militare. Ci va mugugnando, perché son tutti quattrini persi e lui
vive per i guadagni.
A CACCIA DI DENARO E GLORIA
Al
suo biografo ufficiale, Cesar Pasquato di «El Grafico», Di Stefano a fine
carriera ha detto: «Per diventare bravi giocatori occorre pensare giorno e
notte al pallone. I giovani che vogliono fare solo quattrini senza fatica o svolgere altri
mestieri, anche soltanto per distrarsi, mentre giocano da professionisti, sbagliano, perché infallibilmente
toglieranno, anche senza accorgersene, tempo prezioso al loro mestiere. Io non sono mai
stato molto disciplinato nella vita privata, ho bevuto botti di vino e ho mangiato quintali di pesce
fritto, ma tutto questo mi serviva per stordirmi e non pensare ad altro. E dormire. Ma in
sostanza io mi sono mortificato in campo in allenamenti durissimi, mentre nei giovani d'oggi c'è
la tendenza ad allenarsi poco e a non saper soffrire. Gli allenamenti duri, massacranti,
estenuanti, sono indispensabili ad un campione, formano il campione. A me hanno dato
l'ossatura. Il campione deve essere ambizioso ogni giorno di più, ogni giorno più
ambizioso del giorno prima».
Passione
per il calcio, sterminata ambizione a
titolo personale, creano il mito di Di Stefano. «La Guita», il denaro, è tutto per lui. A un
certo punto non gli basta più il River, il denaro che gli danno gli
par poco, nel 1950 viene a sapere che la Colombia, il paese sudamericano uscito dalla Federazione
Internazionale, c'è la possibilità di guadagnare venti volte di più. Insalutato ospite, sparisce
dalla circolazione, si imbarca nottetempo in un aereo e va a giocare in
Colombia. Dal
'50 al '53, da 24 a 27 anni, gioca nel Millonarios
di Bogotà, gol come se piovesse, donne a profusione,
piaceri di ogni genere, gloria gloria gloria. E l'eco delle sue gesta raggiunge
l'Italia, precisamente
la Roma, che nel '53 avrebbe la
possibilità di ingaggiarlo. Ma quei nostri furboni di i romanucci,
dopo l'ennesima riunione di consiglio, ispirati da un biondo Frascati
freddissimo, arronzano
che è troppo vecchio, no, no,
non vale la spesa...
E'
nato il Real Madrid di cui Saporita è
il genio tecnico organizzativo,
riesce a soffiarlo al Barcellona e lo fa suo. Di Stefano parte alla conquista della Spagna, il Paese si può
dire della sua vita. La Spagna lo intenerisce e lo appassiona.
II Real Madrid gli entra nel sangue. Tocca
i vertici funambolici del rendimento. La «Saeta rubia» è più
«Saeta» che mai. Con la squadra madrilena di tutte le leggende
vince dal '54 al '60 cinque Coppe dei
Campioni, percependo
ogni anno 39 milioni d'ingaggio e uno stipendio
mensile di 500 mila lire. Per acquistarlo, il Real Madrid
aveva pagato al River Plate 150 milioni di lire, nove
scudetti di Spagna vinti da Di Stefano col suo Real. Dominguez il portiere, Marquitos e Zarraga i
terzini ondeggianti,
Santisteban, Santamaria e Ruiz la mediana-diga,
Kopa il cervello del gol, sette
di maglia, Mateos l'interno
destro, Di Stefano il perno
della strategia, l'uomo-guida,
il maestro in campo, guai a sgarrare, predice
tutto, insegna col gesto, gioca a testa alta e vede gli errori, Rial mezzo sinistro e ala sinistra Gento il funambolico, il piede di velluto più
dolce e melodioso dopo quello di Rinaldo Martino. Nel 1960, quando ha trentaquattro anni, l'anagrafe non conta
per lui, Di Stefano è valutato cifre iperboliche. Vale un miliardo di lire, i giornali
spagnoli si occupano più di lui che di politica. Diventa famosa
una battuta, in Italia, all'arrivo di Del Sol, forte corridore e campione: «Ha
portato le valigie a Di
Stefano». Qualsiasi campione può
portare le valigie ad un asso così.Nel 1963, il 24 agosto, i castro-comunisti
lo rapiscono, lo vanno a prelevare nell'albergo in cui dormiva, il Potomac,
alle sette del
mattino, spacciandosi per ufficiali di polizia del reparto antidroga. Il colpo avrà un eco mondiale. I rapitori dopo 56 ore libereranno Di
Stefano senza torcergli un capello. Azione dimostrativa
per scuotere il mondo.
UN GENIO
Di
Stefano si considera ormai spagnolo e si è naturalizzato da tre anni. Viene a
trovarlo da Buenos Aires
Cesar Pasquato e Alfredo si sfoga, raccontandogli la sua vita. La Spagna ha
saputo tenerselo, ha
saputo amarlo. Ci vogliono strepitose tenerezze, ci vuole una sopportazione
infinita con i geni. In ogni
campo del vivere il genio è uomo
scorbutico, duro e tenero, intrattabile e umile. Il biondo Di Stefano
che ormai perde i capelli cui tiene tanto, involontariamente ha inventato il calcio totale, il calcio
che ha superato i ruoli. Lui
è stato un centravanti, ma anche una mezzala, un mediano, un'ala, un terzino.
In qualsiasi punto del
campo un genio è genio. I gol sono fioccati dal suo piede. In vent'anni di
carriera ha infilato la bellezza
di 529 gol, in Spagna è stato capocannoniere nel '54, nel '56, nel '57, nel '58
e nel '59. Quando
non lo è stato è perché non ne aveva voglia. I suoi gol sono sempre il
risultato di eccellenti manovre.
Nella nazionale argentina ha giocato 27 volte, e 31 in quella di Spagna. Nel 1957 e nel 1959 «France
Football» gli ha assegnato il «Pallone
d'oro» come migliore calciatore europeo. Forse
il suo sangue misto ne ha agevolato certi estri pungenti, certe ribellioni,
certi spunti di rabbia e passione
gelavano gli avversari. Fu grandissimo, fu mostruoso. Ne nascerà mai più uno
così...?
Grazie Leggenda.
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