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"Non è il buono contro il cattivo e fare in modo che vinca il buono. Il senso del calcio è che vinca il migliore in campo, indipendentemente dalla storia, dal prestigio e dal budget."

Johan Cruijff

martedì 10 giugno 2014

Fattore Brasile #3

 A tre giorni dall' inizio dei Mondiali in Brasile, ho deciso di ripercorrere le gesta di alcuni simboli del calcio brasiliano e del Brasile. Paese di grandi talenti, alcuni rimasti solo meteore, altri diventati stelle.
Continuo dunque questa breve rubrica con una formazione che rimarrà per sempre impressa nei libri della storia del Calcio. Alcuni dissero che sia stata la più grande formazione esistita; di sicuro non ci sono state meteore, ma solo stelle: è la formazione del Brasile nei Mondiali in Messico del '70. I cinque "numeri 10" verdeoro passarono indenni anche sul corpo stanco del guerriero italiano, che era passato alla storia nel mitico 4-3 con la Germania.
Ecco due articoli tratti dal portale StorieDiCalcio
LINK: http://www.storiedicalcio.altervista.org/1970-3.html
LINK: http://www.storiedicalcio.altervista.org/1970-6.html




Una storia di numeri 10



Nel girone di Guadalajara l'In­ghilterra apriva il suo mondia­le con la Romania vincendo per 1-0 e il Brasile guadagnava un largo «score» con la Cecoslovacchia, 4-1. L'inquadratura in­glese era stata rinnovata da Alf Ramsey che la Regina Elisabet­ta aveva nominato baronetto con il diritto a fregiarsi del titolo di «Sir». Del team campione del mondo restavano Banks, Moore, B. Charlton, J. Charlton, Peters, Ball, Hurst, il calcio inglese era tornato ai livelli soddisfacenti dei tempi antichi. I «bianchi» avevano ripreso a dominare nell'Interbritannico, s'erano piazzati terzi nella Coppa Europa vin­ta dall'Italia, i Clubs cominciava­no ad inserirsi nel giro delle vin­centi delle Coppe Europee. Il Manchester United trionfava in Coppa Campioni (1968); il Man­chester City vinceva la Coppa delle Coppe 1970; in Coppa UEFA Leeds United, Newcastle United ed Arsenal avevano trionfato nel­le ultime tre edizioni. Il rinno­vamento apportato da Ramsey per il mondiale '66 aveva vivifi­cato il football, l'Inghilterra era partita per il Messico con la chiara intenzione di riconferma­re il titolo conquistato quattro anni prima. Battuta la Romania con il minimo di scarto, gli in­glesi si ripetevano con la Cecoslovacchia e guadagnavano il pas­saggio ai «quarti», ma l'incon­tro con il Brasile aveva ridimen­sionato le ambizioni dei «bian­chi» anche se la sconfitta (0-1) era stata mantenuta in limiti ac­cettabili.






Il Brasile era stato affi­dato a Mario «Lobo» Zagalo, dopo che Joao Saldanha aveva guadagnato la qualificazione per il mondiale messicano. Dopo l'e­liminazione in terra inglese, Pelé era mancato per più di due anni dall'organico della «selecao». Un po' perché gli impegni com­merciali si facevano sempre più impellenti, ma anche perché una certa parte della critica brasilia­na lo riteneva ormai logoro, ed inoltre la sua presenza appariva incompatibile con quella di Eduardo Concalves de Andrade detto Tostao. I due avevano gio­cato raramente insiemenella se­lecao prima del mondiale in­glese e la manovra d'attacco sembrava risentire di una certa identità delle caratteristiche dei due. Per due anni quindi Tostao faceva i suoi progressi con la maglia «auriverde», ma quando per la Coppa Oswaldo Cruz 1968 con il Paraguay, Pelé riapparve ad Asuncion con la fatidica ma­glia numero 10, Tostao era rima­sto fuori e ci volle il coraggio di Saldanha per affrontare la opinione dei critici facendoli gio­care insieme nelle partite di qua­lificazione del mondiale contro Paraguay Colombia e Venezue­la. Per l'incontro con la Colom­bia a Bogotà il 6 Agosto 1969, Saldanha schierò: Felix; Carlos Alberto, Dyalma Dias, Joel, Rildo; Gerson Piazza; Jairzinho (Paulo Cesar) Tostao Pelé Edù e i due smentirono clamorosa­mente la critica: nelle 6 partite gli «auriverdi» segnarono 23 re­ti, Tostao contribuì al bottino con 10, Pelé con 6.



Allontanato Joao Saldanha, la «selecao» fu affidata al «calciatore più intel­ligente che abbia mai calcato i campi di calcio» - secondo il giudizio di Vecente Feola: Mario «Lobo» Zagalo, che intrapre­se la strada indicata da Sal­danha. Per la difesa non aveva problemi, c'erano una decina di possibili titolari che si equiva­levano, in attacco al contrario c'era da risolvere una situazione piuttosto imbarazzante: i miglio­ri cinque attaccanti che l'im­menso Brasile vantava in quel particolare momento giocavano tutti con il numero 10 nelle loro squadre di Club. Pelé nel Santos, Tostao nel Cruzeiro di Belo Horizonte, Gerson nel San Paolo, Jair­zinho nel Botafogo e Rivelino nel Corihthians, erano tutti o uomi­ni di «manijas» (regia), Pelé Gerson, Tostao, mezze punte, Ri­velino o «punta le lanza», Jair­zinho, che si identificavano comunque con il fatidico numero 10.



Non erano pochi i critici che giudicavano pazzesca la decisione di Zagalo che però intrapresa quella strada non ebbe ripensa­menti. Nell'incontro di apertura del mondiale gli auriverdi si schieravano con: Felix; Carlos Alberto, Brito, Filson Piazza, Everaldo; Gerson (Paulo Cesar) Clodoaldo; Jairzinho Tostao Pelé Ri­velino. L'«homen de manijas» era Gerson, Jairzinho agiva da punta autentica sulla fascia de­stra e Tostao sul centro, Rive­lino e Pelé (che vi si era adat­tato con umiltà) operavano in pratica da mezze punte in zone diverse del campo, con «O'Rey» che si inseriva in avanti nel fra­seggio delle punte e il baffuto oriundo napoletano che si sot­toponeva disciplinatamente al la­voro di tamponamento quando occorreva.



Non ci fu dimostra­zione più grande secondo il prin­cipio «che le ambizioni persona­listiche devono essere sacrifica­te agli interessi del collettivo», il Brasile cominciò subito alla grande travolgendo la Cecoslo­vacchia con le reti di Jairzinho (2) Pelé, Rivelino, batte di misu­ra l'Inghilterra (1-0) con una re­te dell'erede di Garrincha, suc­cessiva ad una splendida mano­vra Pelé-Tostao-Jairzinho nel cuo­re della difesa inglese e con la Romania si concesse qualche di­strazione difensiva vincendo, per 3-2 con una doppietta di Pelé ed un altro centro di Jairzinho.






Un Re per tutti


Gli azzurri arrivarono alla fina­le con i muscoli avvelenati dai supplementari con laGermania e con l'appagamento del risulta­to così inaspettatamente raggiunto. Valcareggi, soddisfatto della spe­rimentata staffetta insisteva sulla formazione iniziale così concepita: Albertosi, Burgnich Facchetti; Bertini Rosato Cera; Domenghini Mazzola Boninsegna De Sisti Riva con Rivera pronto in panchina. Zagalo confermava la formazione storica: Felix; Car­los Alberto, Brito, Piazza, Everaldo; Gerson Clodoaldo; Jairzinho Tostao Pelé Rivelino. Glockner fischiò l'inizio alle 12 di quel 21 Giugno, Italia e Brasile paraliz­zate davanti al video. Gli azzur­ri si disponevano nella marcatu­ra a uomo: Bertini su Pelé, Fac­chetti, Burgnich e Rosato rispet­tivamente su Jairzinho, Rivelino, e Tostao, gli «auriverdi» non avevano di questi problemi pedestri, marcavano a zona. Valcareggi aveva predisposto un filtro efficace sulla trequarti ma gli azzurri giocavano come frenati, attenti solo a rompere le elegan­ti manovre che la vocazione of­fensiva dei brasiliani comincia­va ad ispirare.






Al 18' Pelé s'ele­vò a colpire una palla arrivata­gli dalla sinistra. Parve atten­dere, sollevatoin aria, quella palla che con un colpo di testa, come una mazzata si spense in rete alla spalle di Albertosi. For­midabile! Gli azzurri non ebbero reazioni particolari, riuscirono a pareggiare al 37' grazie ad uno svarione di Everaldo prontamen­te sfruttato da Boninsegna, ma il fatto apparve episodico, il Bra­sile continuava a premere men­tre la resistenza dei nostri affievoliva e saltavano gli sbarramen­ti che Valcareggi aveva sapien­temente predisposto. Segnarono ancora Gerson al 65', con un tiro di rara bellezza scagliato dal li­mite dei sedici metri, Jairzinho al 70', cogliendo la nostra difesa ormai sulle ginocchia e Carlos Alberto all'86' nella più bella ma­novra di tutta la partita: Clodoaldo si libera in dribbling sul centrocampo e smista a Jairzinho che cerca Pelé; «O Rey» controlla e apre magni­ficamente sulla destra dove sta avventandosi Carlos Alberto; il tiro è violento e preciso, Albertosi è battuto.






Finisce 4-1 fra il tripudio dei brasiliani e dell'im­menso pubblico - 105.000 spet­tatori - che ha assistito all'in­contro. Pelé è in trionfo è l'apo­teosi del calcio offensivo, il Bra­sile ha vinto, Pelé è stato una volta di più il Re del «mondo del pallone» e quando Carlos Alberto eleva al cielo la statuet­ta che Jules Rimet aveva messo in palio nel 1930, l'Azteca esplo­de nell'osanna ai vincitori. Ma abbiamo lasciato in chiusura un particolare che incise profonda­mente negli avvenimenti succes­sivi delle cose di casa nostra. Valcareggi forse trasportato dal­le emozioni del momento, oppu­re travolto dalla evidente superio­rità dei brasiliani, si accorse di avere Rivera in panchina a soli 6' dal termine quando ormai il risultato era fissato sull'1-3 e lo mandò in campo a sostituire Mazzola. Qualcuno giudicò l'av­venimento come un affronto e tanta fu l'abilità di una certa stampa, che riuscì ad insinuare il dubbio che con Rivera in campo fin dall'inizio avremmo potuto disporre dei brasiliani, come un Messico qualsiasi.



E fu questa ignobile partigianeria che innestò l'ancora più ignobi­le accoglienza che fu riservata agli azzurri quando rimisero pie­de sul suolo patrio, con l'incre­dibile processo davanti alla TV e le cariche della polizia a di­sperdere i facinorosi intenzionati a bastonare chi aveva tanto ma­lignamente attentato al presti­gio del «golden boy». Un' av­ventura che aveva riportato il nostro calcio a livelli inusuali da più di un trentennio, finiva in una farsa indegna di un paese civile. II ritorno in patria dei no­stri si chiudeva con una pagina amara da dimenticare in fretta. Nessuno nelle condizioni ambien­tali di Città del Messico, sareb­be riuscito a far meglio di quan­to fecero gli azzurri contro il Brasile di Pelè in quell'occasione.



 

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