A tre giorni dall' inizio dei Mondiali in Brasile, ho deciso di
ripercorrere le gesta di alcuni simboli del calcio brasiliano e del
Brasile. Paese di grandi talenti, alcuni rimasti solo meteore, altri
diventati stelle.
Continuo dunque questa breve rubrica con una formazione che rimarrà per sempre impressa nei libri della storia del Calcio. Alcuni dissero che sia stata la più grande formazione esistita; di sicuro non ci sono state meteore, ma solo stelle: è la formazione del Brasile nei Mondiali in Messico del '70. I cinque "numeri 10" verdeoro passarono indenni anche sul corpo stanco del guerriero italiano, che era passato alla storia nel mitico 4-3 con la Germania.
Ecco due articoli tratti dal portale StorieDiCalcioContinuo dunque questa breve rubrica con una formazione che rimarrà per sempre impressa nei libri della storia del Calcio. Alcuni dissero che sia stata la più grande formazione esistita; di sicuro non ci sono state meteore, ma solo stelle: è la formazione del Brasile nei Mondiali in Messico del '70. I cinque "numeri 10" verdeoro passarono indenni anche sul corpo stanco del guerriero italiano, che era passato alla storia nel mitico 4-3 con la Germania.
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Una storia di numeri 10
Nel girone di
Guadalajara l'Inghilterra
apriva il suo mondiale con la Romania vincendo per 1-0 e il Brasile guadagnava un largo «score» con la Cecoslovacchia, 4-1. L'inquadratura inglese era stata rinnovata da Alf Ramsey che la Regina
Elisabetta aveva nominato baronetto con il diritto a fregiarsi del
titolo di «Sir». Del team campione del mondo restavano Banks, Moore, B. Charlton, J. Charlton, Peters, Ball, Hurst, il calcio inglese era tornato ai livelli soddisfacenti dei
tempi antichi. I «bianchi» avevano ripreso a dominare nell'Interbritannico, s'erano
piazzati terzi nella Coppa Europa vinta dall'Italia, i Clubs cominciavano ad inserirsi nel
giro delle vincenti delle Coppe Europee. Il Manchester United trionfava in Coppa Campioni (1968);
il Manchester City vinceva la Coppa delle Coppe 1970; in Coppa UEFA Leeds United,
Newcastle United ed Arsenal avevano trionfato nelle ultime tre edizioni. Il rinnovamento
apportato da Ramsey per il mondiale '66 aveva vivificato il football, l'Inghilterra era partita per
il Messico con la chiara intenzione di riconfermare il titolo
conquistato quattro anni prima. Battuta la Romania con il minimo di scarto, gli inglesi si ripetevano con la Cecoslovacchia e guadagnavano il passaggio ai «quarti», ma l'incontro
con il Brasile aveva ridimensionato le ambizioni dei «bianchi» anche se la sconfitta
(0-1) era stata mantenuta in limiti accettabili.
Il Brasile era stato
affidato a Mario «Lobo» Zagalo, dopo che Joao Saldanha aveva guadagnato la qualificazione per il mondiale
messicano. Dopo l'eliminazione in terra inglese, Pelé era mancato per più di due anni dall'organico della
«selecao». Un po' perché gli impegni commerciali si facevano sempre più
impellenti, ma anche perché una certa parte della critica brasiliana lo riteneva ormai
logoro, ed inoltre la sua presenza appariva incompatibile con quella di Eduardo Concalves de
Andrade detto Tostao. I due avevano giocato raramente insiemenella selecao prima del
mondiale inglese e la manovra d'attacco sembrava risentire di una certa identità delle
caratteristiche dei due. Per due anni quindi Tostao faceva i suoi progressi con la maglia «auriverde», ma quando per la Coppa Oswaldo Cruz 1968 con il Paraguay, Pelé riapparve ad
Asuncion con la fatidica maglia numero 10, Tostao era rimasto fuori e ci volle il coraggio di Saldanha per affrontare
la opinione dei critici facendoli giocare insieme nelle
partite di qualificazione del mondiale contro Paraguay Colombia e Venezuela. Per l'incontro
con la Colombia a Bogotà il 6 Agosto 1969, Saldanha schierò: Felix; Carlos Alberto, Dyalma Dias, Joel, Rildo; Gerson Piazza; Jairzinho (Paulo
Cesar) Tostao Pelé Edù e i due smentirono clamorosamente la critica: nelle 6 partite gli
«auriverdi» segnarono 23 reti, Tostao contribuì al bottino con 10, Pelé con 6.
Allontanato Joao Saldanha, la «selecao» fu affidata al
«calciatore più intelligente che abbia mai calcato i campi di calcio» - secondo il
giudizio di Vecente Feola: Mario «Lobo» Zagalo, che intraprese la strada indicata da Saldanha. Per la difesa non aveva problemi, c'erano una decina di possibili titolari che si equivalevano,
in attacco al contrario c'era da risolvere una situazione piuttosto imbarazzante: i
migliori cinque attaccanti che l'immenso Brasile vantava in quel particolare momento giocavano
tutti con il numero 10 nelle loro squadre di Club. Pelé nel Santos, Tostao nel Cruzeiro di Belo Horizonte, Gerson nel San Paolo, Jairzinho nel Botafogo e Rivelino nel Corihthians, erano tutti o uomini di «manijas» (regia), Pelé Gerson, Tostao, mezze punte, Rivelino o «punta le lanza», Jairzinho, che si identificavano comunque con il fatidico numero 10.
Non erano pochi i critici che giudicavano pazzesca la decisione di Zagalo che però intrapresa quella strada non ebbe ripensamenti.
Nell'incontro di apertura del mondiale gli auriverdi si schieravano con: Felix; Carlos Alberto, Brito, Filson Piazza, Everaldo;
Gerson (Paulo Cesar) Clodoaldo;
Jairzinho Tostao Pelé Rivelino. L'«homen de manijas» era Gerson, Jairzinho agiva da punta autentica sulla fascia destra e Tostao sul centro, Rivelino e Pelé (che vi si era adattato con umiltà) operavano in pratica da mezze punte in zone diverse del campo, con «O'Rey» che
si inseriva in avanti nel fraseggio delle punte e il baffuto oriundo napoletano che
si sottoponeva disciplinatamente al lavoro di tamponamento quando occorreva.
Non ci fu dimostrazione più grande secondo il principio «che le ambizioni personalistiche devono essere sacrificate
agli interessi del collettivo», il Brasile
cominciò subito alla grande travolgendo la Cecoslovacchia con
le reti di Jairzinho (2) Pelé, Rivelino, batte di misura l'Inghilterra (1-0) con una rete dell'erede di Garrincha, successiva ad una splendida manovra Pelé-Tostao-Jairzinho nel cuore
della difesa inglese e con la Romania si concesse qualche distrazione
difensiva vincendo, per 3-2 con una doppietta di Pelé ed un altro centro di Jairzinho.
Un Re per tutti
Gli azzurri arrivarono alla finale con i muscoli avvelenati dai
supplementari con laGermania e con l'appagamento del risultato così
inaspettatamente raggiunto. Valcareggi, soddisfatto della sperimentata staffetta insisteva
sulla formazione iniziale così concepita: Albertosi, Burgnich Facchetti;
Bertini Rosato Cera; Domenghini Mazzola Boninsegna De Sisti Riva con Rivera pronto in panchina. Zagalo confermava la formazione storica: Felix; Carlos Alberto, Brito, Piazza, Everaldo; Gerson Clodoaldo;
Jairzinho Tostao Pelé Rivelino. Glockner fischiò
l'inizio alle 12 di quel 21 Giugno, Italia e Brasile paralizzate
davanti al video. Gli azzurri si disponevano nella marcatura a uomo: Bertini su Pelé, Facchetti, Burgnich e Rosato rispettivamente su Jairzinho, Rivelino, e Tostao, gli «auriverdi» non avevano di questi problemi pedestri, marcavano a zona. Valcareggi aveva
predisposto un filtro efficace sulla trequarti ma gli azzurri giocavano come frenati,
attenti solo a rompere le eleganti manovre che la vocazione offensiva dei brasiliani
cominciava ad ispirare.
Al 18' Pelé s'elevò a colpire una palla arrivatagli dalla sinistra. Parve
attendere, sollevatoin aria, quella palla che con un colpo di testa, come
una mazzata si spense in rete alla spalle di Albertosi. Formidabile! Gli azzurri non ebbero reazioni
particolari, riuscirono a pareggiare al 37' grazie ad uno svarione di Everaldo prontamente
sfruttato da Boninsegna, ma il fatto apparve episodico, il Brasile continuava a premere mentre
la resistenza dei nostri affievoliva e saltavano gli
sbarramenti che Valcareggi aveva sapientemente predisposto. Segnarono ancora Gerson al 65', con un
tiro di rara bellezza scagliato dal limite dei sedici metri, Jairzinho al 70',
cogliendo la nostra difesa ormai sulle ginocchia e Carlos Alberto all'86' nella più bella manovra di tutta la partita:
Clodoaldo si libera in dribbling sul centrocampo e smista a Jairzinho che cerca Pelé; «O Rey» controlla e apre magnificamente sulla destra dove sta
avventandosi Carlos Alberto; il tiro è violento e preciso, Albertosi è battuto.
Finisce 4-1 fra il tripudio dei brasiliani e dell'immenso
pubblico - 105.000 spettatori - che ha assistito all'incontro. Pelé è in trionfo è
l'apoteosi del calcio offensivo, il Brasile ha vinto, Pelé è stato una volta di più il Re del «mondo del pallone»
e quando Carlos Alberto eleva al cielo la statuetta che Jules Rimet aveva messo in palio nel 1930, l'Azteca esplode nell'osanna ai vincitori. Ma abbiamo
lasciato in chiusura un particolare che incise profondamente negli avvenimenti successivi
delle cose di casa nostra. Valcareggi forse trasportato dalle emozioni del momento, oppure travolto dalla
evidente superiorità dei brasiliani, si accorse di avere Rivera in panchina a
soli 6' dal termine quando ormai il risultato era fissato sull'1-3 e lo
mandò in campo a sostituire Mazzola. Qualcuno giudicò l'avvenimento come un affronto e
tanta fu l'abilità di una certa stampa, che riuscì ad insinuare il dubbio che con Rivera in campo fin
dall'inizio avremmo potuto disporre dei brasiliani, come un Messico
qualsiasi.
E fu questa ignobile partigianeria che innestò l'ancora più ignobile
accoglienza che fu riservata agli azzurri quando rimisero piede sul
suolo patrio, con l'incredibile processo davanti alla TV e le cariche della polizia a disperdere
i facinorosi intenzionati a bastonare chi aveva tanto malignamente attentato al prestigio
del «golden boy». Un' avventura che aveva riportato il nostro calcio a livelli
inusuali da più di un trentennio, finiva in una farsa indegna di un paese civile. II ritorno in patria
dei nostri si chiudeva con una pagina amara da dimenticare in fretta. Nessuno nelle
condizioni ambientali di Città del Messico, sarebbe riuscito a far meglio di quanto fecero gli azzurri contro il Brasile di Pelè in quell'occasione.
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